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DIVIETO DI APPLICAZIONE DELLA DETENZIONE DOMICILIARE PER IL CORONAVIRUS (art. 123 D.L. 18/2020) IN RELAZIONE ALLA CONDIZIONE OSTATIVA DELL'ART. 58 QUATER ORDINAMENTO PENITENZIARIO Un contrasto tra diritto alla salute e esigenze di repressione

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DIVIETO DI APPLICAZIONE DELLA DETENZIONE DOMICILIARE PER IL CORONAVIRUS (art. 123 D.L. 18/2020) IN RELAZIONE ALLA CONDIZIONE OSTATIVA DELL'ART. 58 QUATER ORDINAMENTO PENITENZIARIO

Un contrasto tra diritto alla salute e esigenze di repressione

Nella presente situazione epidemica, non può sottacersi il dato oggettivo di casi di contagio di diversi detenuti renda indispensabile garantire ai detenuti e agli operatori all’interno dei carceri la tutela del diritto, costituzionalmente garantito alla salute, ex art. 32 Cost..

Nel D.L. 18/2020, all'art. 123, vengono introdotte una serie di deroghe, temporalmente limitate tra il 17 marzo 2020 e il 30 giugno 2020, alla disciplina della detenzione domiciliare dettata dalla Legge n. 199/2010 e successive modifiche (da ultimo il D.L. 23 dicembre 2013 n. 146).

L'art. 123 stabilisce che si possa ricorrere alla detenzione domiciliare se la pena da espiare non non sia superiore a 18 mesi, anche se residuo di maggior pena.

Con l’art. 123 D.L. 18/2020, viene eliminata la necessità da parte del Magistrato di Sorveglianza di accertare la concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga, ovvero in ordine a specifiche e motivate ragioni per ritenere che il condannato possa commettere altri delitti, sostituendo tale requisito con l’applicazione del braccialetto elettronico per coloro che hanno un residuo pena da 7 mesi a 18.

Si ritiene, quindi, che dovrebbe essere lasciata alla valutazione personalizzata del Magistrato di sorveglianza a seconda della personalità del singolo detenuto, la sola applicabilità di strumenti elettronici di controllo.

La ratio della norma è evidentemente quella di introdurre una misura eccezionale, in una situazione eccezionale, per ridurre la possibilità di contagio con procedimento semplificato, introducendo il diritto di essere trasferiti in detenzione domiciliare con il braccialetto elettronico per i detenuti con meno di diciotto mesi da scontare, salvo determinate esclusioni.

I motivi ostativi alla concessione di quanto previsto dall'art. 123 D.L. 18/2020 sembrano strettamente connesse con la tipologia dei reati e/o la personalità soggettiva del detenuto.

La norma, nel suo contenuto letterale, esclude dall'applicazione del beneficio – come, parimenti, avveniva per la L. 199/2010 - una serie di delitti di particolare allarme sociale previsti dall’art. 4-bis O.P. , i delinquenti abituali, professionali o per tendenza, i detenuti in regime di regime di sorveglianza particolare in carcere, ai sensi dell’art. 14-bis O.P., e – in conformità alla specialità della situazione e alla ratio ultima della norma come sopra evidenziata - i detenuti che siano privi di domicilio effettivo ed idoneo, anche in relazione alla tutela delle persone offese dal reato.

Si rileva, dunque, nella specie, che nulla dice la norma riguardo all'applicabilità del divieto di cui all'art. 58 quater O.P..

Tale norma, secondo un'opinione, potrebbe essere invocata per denegare il beneficio della detenzione domiciliare in quanto l'art. 123 richiama alla L. 199/2010 che, in effetti, poneva l'art. 58 quater O.P. come condizione ostativa all'applicazione delle disposizioni della L. 199.

Già per tale motivo, secondo il noto brocardo ubi lex voluit, dixit, ubi noluit tacuit, appare illegittimo il rigetto della richieste, almeno unicamente, motivato dalla condizione ostativa dell'art. 58 quater O.P..

Preliminarmente, infatti, occorre rilevare come la ratio delle norme – art. 123 D.L. 18/2020 e L. 199/2010 – sia del tutto diversa e non assimilabile.

Basta, infatti, considerare che la norma in questione – l'art. 123 – è una disposizione emessa per far fronte ad una situazione di assoluta emergenza sanitaria, volta alla tutela del bene primario della salute ( ben si badi non solo dei detenuti, ma anche degli operatori penitenziari e dei loro familiari), in una condizione di oggettiva ed indiscutibile contingenza.

Per tale motivo, le eccezioni alla generalizzata applicazione dell'art. 123 D.L. 18/2020, sono volte a contemperare interessi e diritti di rango costituzionale, quali la sicurezza pubblica (non a caso si fa riferimento ai condannati per delitti di particolare allarme sociale, ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, a quelli in regime di regime di sorveglianza particolare in carcere) e la tutela delle vittime (con la previsione del reato di maltrattamenti in famiglia e di stalking tra quelli ostativi), oltre che alle situazioni “di fatto” (più numerose di quanto si possa credere) dei detenuti privi di un adeguato domicilio.

Nulla dice la norma circa l'art. 58 quater O.P., cui taluni si richiamano solo in forza del rimando, generico, alla L. 199/2010.

Orbene, se la tutela di vittime e sicurezza pubblica è motivo costituzionalmente apprezzabile per il diniego della detenzione domiciliare, l'automatica applicazione ai fini ostativi dell'art. 58 quater, appare essere confliggente con il diritto, parimenti di rilevanza costituzionale, alla salute.

Infatti, il divieto di ottenere misure alternative alla detenzione per un triennio dalla revoca di precedente misura alternativa alla detenzione, prevista dall'art. 58 quater, non è, ipso facto, né indice di una maggiore pericolosità sociale, né di una più marcata propensione a delinquere, visto che, molte volte, la revoca avviene per motivi del tutto estranei alla devianza sociale.

L’art. 123 c. 2 D.L. 18/2020 sembra rimettere al Magistrato di sorveglianza la valutazione relativa all’adozione della misura, qualora ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura.

Si tratta di disposizione estremamente generica che pone invero un ampio potere discrezionale alla magistratura di sorveglianza, in specie considerando che si decide quindi con ordinanza adottata in camera di consiglio, senza la presenza delle parti.

Il richiamo alla legge 199/2010 che, come si è visto, potrebbe far ritenere applicabile anche a questa nuova misura il divieto di cui all’art. 58-quater O.P., ma tale opinione appare essere ultronea, stante il principio, ormai stabilito dal costante insegnamento sia della Consulta che della Cassazione, secondo cui, in materia di benefici penitenziari è un criterio “costituzionalmente vincolante” quello che esclude “rigidi automatismi e richiede sia resa possibile invece una valutazione individualizzata caso per caso” (Corte Cost., sentenza n. 436/1999).

Non a caso, infatti, la Consulta ha, più volte, ribadito che l’esclusione di criteri individualizzanti comporta che “l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo” (Corte Cost., sent. n. 257/2006) e ciò determina un giudizio del dettato normativo “sicuramente in contrasto con i principi di proporzionalità ed individualizzazione della pena” (Corte Cost., sent. n. 255/2006), con la conseguenza che, nel diritto penitenziario, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, è vietato ogni automatismo valutativo in malam partem, dovendosi, invece, procedere alla verifica in concreto della sussistenza dei presupposti che legittimano l’adozione dei vari istituti previsti (M.d.S. Milano del 9.11.2011).

Tale modo di vedere – sia pur in ordine alla preclusione dei benefici penitenziari a chi si sia reso responsabile del delitto di evasione – appare sorretto dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale, assumendosi, infatti, la necessità di una lettura della norma costituzionalmente orientata, che non permette l'automatica preclusione, senza limiti di tempo, per effetto della condanna stessa, dovendo il giudice procedere a un esame approfondito della personalità del condannato e della sua effettiva e perdurante pericolosità sociale (Cass. Pen. Sez. 1 n.26298 del 07/03/2019; Cass. Pen. Sez. 1, n. 1116 del 22/09/2016, dep. 2017, Russo; Cass. Pen. Sez. 1, n. 29 del 19/11/2014).

Infatti, già in tema di applicazione della L. 199/2010, vi sono state decisioni della magistratura di sorveglianza abbiano evidenziato che “pur essendo possibile una interpretazione rigorosamente letterale della disposizione impugnata, che imporrebbe di ritenere tout court precluso, all’interessato che abbia subito la revoca di precedente beneficio penitenziario (nella specie, esecuzione domiciliare), l’accesso alle misure alternative dell’affidamento in prova al servizio sociale e della detenzione domiciliare; pare doveroso adottare, invece, una sua lettura costituzionalmente orientata, basata sul principio della funzione rieducativa della pena, sancito dall’art. 27, terzo comma, Cost., e validata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha escluso la cittadinanza, nel nostro ordinamento penitenziario, della prevalenza assoluta delle esigenze di prevenzione sociale su quelle di recupero dei condannati” (cfr. Tribunale Sorv. Torino 20.02.2014; in senso conforme si veda anche Tribunale Sorv. Bologna, ord. 22.03.2011).

Tale opinione appare sorretta, anche, dalla Corte di Cassazione secondo cui “In questa cornice di principi generali, recepiti in due recenti decisioni delle Sezioni Unite (Sez. Un. 28 marzo 2006, ric. Alloussi; Sez. Un. 30 maggio 2006, ric. Aloi), il Collegio ritiene che l’ammissione ad una misura alternativa alla detenzione in carcere (nel caso di specie, la detenzione domiciliare) di un soggetto nei cui confronti sia intervenuta affermazione di penale responsabilità per il delitto di evasione non possa essere automaticamente preclusa dalla intervenuta condanna per il reato previsto dall’art. 385 c.p. a prescindere da qualsiasi valutazione in ordine all’avvenuta realizzazione di tutte le condizioni per usufruire del beneficio richiesto. Piuttosto, una lettura costituzionalmente orientata della norma impone al giudice, in presenza di una condanna per questo titolo di reato, un’analisi particolarmente approfondita sulla personalità del condannato, sulla sua effettiva, perdurante pericolosità sociale alla luce delle condotte rilevanti ai sensi dell’art. 385 c.p., oggetto di accertamento definitivo, sui progressi trattamentali compiuti e il grado di rieducazione compiuto prima dell’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005”.

Nella specie, quindi, stante la diffusione del contagio da COVID 19 e lo stato di detenzione, appare evidente che non siano applicabili automatismi nella preclusione all’accesso della misura della detenzione domiciliare in quanto in contrasto netto con la tutela di un diritto costituzionalmente protetto, quello alla salute, ex art. 32 Cost., salvo quelli espressamente, letteralmente e chiaramente indicati dal legislatore nel testo dell'art. 123.

Tale aspetto, che potrebbe, astrattamente, integrare ipotesi di illegittimità costituzionale, può essere, nell'urgenza della situazione epidemica, ovviato con una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 123 D.L. 18/2020, attraverso una, sia pur sommaria, valutazione nel merito della condotta tenuta dal soggetto, per la verifica dell'opportunità di concedere la detenzione domiciliare, anche ai sensi di quanto sancito dalle sentenze della Consulta (sentenze n.255/2006-149/2018) ed in ossequio, sia alle finalità previste dall’art. 27, sia a quelle, in questa fase storica, forse anche più pregnanti, di tutela della salute ex art. 32 Cost., non potendosi tacere che anche ai soggetti in detenzione non può essere conculcato il diritto alla salute.


Avv. Giovanni Merli - Avvocato penalista in firenze

Sono Giovanni Merli, esperto in diritto penale sia ordinario (reati comuni), sia in riferimento al diritto penale d’impresa (con particolare riguardo alla difesa in caso di infortuni sul lavoro), sia come difensore dell'imputato, sia del danneggiato (parte civile). Stabilisco a livello personale un rapporto franco e diretto con i clienti per la migliore gestione del caso. Mi occupo volentieri di diritto di famiglia, trattandosi di materia che spesso correlata alle vicende penali e di risarcimento del danno da reato. Opero in tutta Italia.




Giovanni Merli

Esperienza


Sicurezza ed infortuni sul lavoro

In materia di infortuni sul lavoro ho difeso numerosi imprenditori, accusati di lesioni colpose con buoni risultati. L'interesse sviluppato per la materia mi ha portato ad approfondirne lo studio con ricerche di giurisprudenza e la redazione di alcuni articoli, così da poter offrire oltre che la sola pratica esperienza, anche una solida preparazione scientifica indispensabile in una materia alquanto complessa. Va da sè che ho assitito, anche, numerosi lavoratori quali danneggiati degli infortuni sul lavoro.


Stalking e molestie

Ho potuto difendere in numerosi procedimenti, sia curando la difesa dell'imputato che gli interessi delle vittime, impegnandomi ad individuare la sussistenza, o meno, degli elementi del reato di stalking anche attraverso un'analisi accurata del profilo vittimologico e la ricostruzione probatoria anche di episodi apparentemente di scarso rilievo.


Reati contro il patrimonio

Ho difeso innumerevoli procedimenti per furti, ricettazione, rapine, ecc. pur essendo i più comuni reati da difendere, solo con molti anni di esperienza ho potuto maturare strategie processuali che, se non vi era la possibiltà di eescludere la responsabilità, fossero da garantire un'efficace difesa, attraverso la derubricazione o l'applicazione del regime del tentativo, con importanti riduzioni di pena.


Altre categorie:

Sostanze stupefacenti, Diritto penitenziario, Incidenti stradali, Diritto di famiglia, Omicidio, Gratuito patrocinio, Cassazione, Domiciliazioni, Risarcimento danni.


Referenze

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IL DATORE DI LAVORO E' RESPONSABILE PER L'INFORTUNIO AVVENUTO A CHI NON LAVORA PER LUI?

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IL DATORE DI LAVORO E' RESPONSABILE PER L'INFORTUNIO AVVENUTO A CHI NON LAVORA PER LUI? Sicuramente, gli imprenditori non svolgono la loro attività per scopo benefico, ma per lucro e, analogamente, i lavoratori per ricevere lo stipendio. La responsabilità del datore di lavoro in materia di prevenzione degli infortuni, dettata dal D. Lgs. 81/2008 è così ampia, che sarebbe, invero, illogico limitare i beneficiari a solo alcune categorie. Per tale motivo, ovviamente, lavoratore non sarà solo chi è iscritto a libro paga di una determinata azienda, ma chiunque svolga un’attività lavorativa all’interno dell’impresa, vista come organizzazione di un datore di lavoro sia esso pubblico che privato. La normativa antinfortunistica troverà, quindi, applicazione indipendentemente dalla tipologia contrattuale che lega il lavoratore all’impresa, da un lato, ma, anche, indipendentemente dal fatto che questi svolga la sua attività gratuitamente o per ricevere un compenso. In questo senso, quindi, anche colui che presti la propria attività occasionalmente, a puro titolo di favore o di amicizia, o anche per scopi solidaristici (si pensi al partecipante ad un’attività di volontariato), si trova ad essere soggetto alla normativa antinfortunistica, con la conseguenza che colui che lo ha adibito a svolgere quell’attività (si ripete, a puro titolo gratuito e con la volontaristica adesione del prestatore d’opera) deve osservare la normativa antinfortunistica, restando responsabile per il caso di sinistro che è, per la norma, un infortunio sul lavoro a tutti gli effetti. A tale proposito appare essere illuminante la sentenza della Cassazione del 7.5.2010, secondo cui anche il figlio del proprietario dell’azienda che si trovi coinvolto, occasionalmente, in un sinistro durante un suo accesso ai locali dell’impresa paterna, è soggetto alla disciplina antinfortunistica, con correlativa responsabilità penale del padre per l’infortunio, in quanto il D.Lgs. 626/1994 tutela tutte le forme di lavoro, anche quando non sussista un formale rapporto di lavoro (nella specie, il giovane, studente universitario, era, semplicemente, andato a trovare il genitore). Si tratta di un'applicazione rigorosa della posizione di garanzia, propria del datore di lavoro per la sicurezza delle lavorazioni, che si estende a chiunque acceda ai locali aziendali, a prescindere dal motivo per cui accede, in quanto il dovere di garantire la sicurezza, intesa, in ultima analisi come garanzia dell'integrità fisica dei terzi, non può trovare limitazione nella sussistenza, o meno, del rapporto di lavoro contrattualmente inteso. Si vedrà che il D.Lgs. 81/2008 si spinge anche oltre, rispetto il D.Lgs. 626/1994, visto che la necessità di garantire la sicurezza si estende ad ogni accesso ai locali di lavoro, anche a soggetti che non hanno con l'attività imprenditoriale alcun legame. Così, anche il datore di lavoro – l'imprenditore, cioé – potrà essere ritenuto responsabile dell'infortunio occorso, ad esempio, ad un cliente che sia entrato in azienda per chiedere informazioni sui prodotti o all'agente di commercio che lì si rechi per trattare un affare. Il D.Lgs. 81/2008, infatti, non si limita a dettare delle prescrizioni, così come facevano i D.p.R. degli anni Cinquanta (peraltro, dal punto di vista strettamente ecnico, tuttora ottimi), ma impone l'obbligo per l'imprenditore di monitorare la situazione di fatto applicando ogni accortezza ragionevolmente prevedibile, anche se non direttamente imposta da una norma, che possa evitare, proprio per la situazione di fatto esistente, il verificarsi di un infortunio: si tratta, in ultima analisi, dell'applicazione della norma di chiusura dettata dall'art. 2087 c.c..

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RAPPORTI TRA LA RESPONSABILITA' DEL DATORE DI LAVORO E QUELLA DEL PREPOSTO PER IL CASO DI INFORTUNIO SUL LAVORO

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RAPPORTI TRA LA RESPONSABILITA' DEL DATORE DI LAVORO E QUELLA DEL PREPOSTO In materia di infortuni sul lavoro deve porsi la massima attenzione, per individuare le responsabilità, a chi, nel caso concreto, assume la c.d. posizione di garanzia. Il problema è annoso e di notevole delicatezza, stante il divieto di responsabilità oggettiva in campo penale, tanto che vi è stato un notevole dibattito sulla lettura costituzionalmente orientata delle norme in materia. E' troppo facile, infatti, ritenere responsabile colui che risulti, formalmente, datore di lavoro con una meccanica trasposizione della norma civilistica in campo penale. Si tratta, semmai, di individuare chi, al momento dell'infortunio, aveva il dovere di attivarsi affinché non si verificasse con un criterio di concretezza. Da un certo punto di vista, anche in forza dell'art. 2087 c.c., le responsabilità sembrano, generalmente e genericamente, ricadere sul datore di lavoro, ma non è sempre così. Anche volendo prescindere dalla facoltà del datore di delegare – sia pure con le forme previste dalla norma e, dunque, con atto scritto di data certa, debitamente posto a conoscenza – ad altri le funzioni di prevenzione e vigilanza antinfortunistica, appare evidente la possibilità che la posizione di garanzia del datore di lavoro possa essere assunta da altre figure. A tale proposito appare interessante la sentenza 25.6.2015 n.° 26994, IV Sezione Penale della Corte di Cassazione, secondo cui la responsabilità del datore di lavoro non può essere, apoditticamente, affermata per il sol fatto che si è verificato un infortunio sul lavoro. Nel caso sottoposto all'esame della Corte, si era verificato un infortunio per omesso utilizzo della cintura di sicurezza da parte del lavoratore e di esso era stato ritenuto responsabile il datore di lavoro. La Corte, affermando il principio che nella valutazione delle responsabilità per l'infortunio occorre rifuggire da automatismi, dovendosi, invece, valutare ed individuare quale particolare regola cautelare violata sia stato l'antefatto causale dell'evento. Per tale motivo, se, come è avvenuto, l'infortunio si è verificato per l'omessa adeguata vigilanza circa l' utilizzo della cintura di sicurezza da parte del dipendente, tale violazione " rimanda alla sfera di rischio gestita dal preposto , i cui compiti sono quelli di sovrintendere alla attività lavorativa e garantire l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa". Ne segue che l'omessa vigilanza deve essere attribuita al preposto, direttamente posto a contatto con le lavorazioni da eseguire e, dunque, cui fa carico l'obbligo di vigilare sull'utilizzo degli strumenti di sicurezza da parte dei lavoratori. Ora se è vero che il datore di lavoro ha il dovere di vigilare sull'operato del preposto, tale obbligo non può estendersi al continuativo – e minuto - controllo dell'operato di quest'ultimo, vanificandosi, diversamente, la stessa funzione professionale e di inserimento nell'organigramma aziendale. Appare così evidente che la responsabilità del datore di lavoro, per il caso di nomina di preposto alle lavorazioni, potrà ritenersi esistente solo casi residuali, come, ad esempio, di una culpa in eligendo , per aver scelto quale preposto un soggetto privo delle competenze tecniche e professionali per lo svolgimento della mansione. Apparentemente, ma solo apparentemente, si potrebbe porre il problema delle disposizioni impartite al preposto dal datore di lavoro in materia di prevenzione. Infatti, se le disposizioni impartite sono in contrasto con la normativa, o, anche, solo con la “buona tecnica”, il preposto non sarà liberato dalla responsabilità in quanto la norma non può essere derogata dagli “ordini” dell'imprenditore. In tal caso, infatti, il preposto dovrebbe dissociarsi e non dare esecuzioni a disposizioni contrarie alla norma, diversamente, lungi dall'essere liberato dalla responsabilità, verrebbe a concorrere nel reato.

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SE IL LAVORATORE SI COMPORTA IN MODO IMPREVEDIBILE L'IMPRENDITORE E' RESPONSABILE DELL' INFORTUNIO?

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SE IL LAVORATORE SI COMPORTA IN MODO IMPREVEDIBILE L'IMPRENDITORE E' RESPONSABILE DELL' INFORTUNIO? Un problema che si presenta, con una certa frequenza, in materia di infortuni sul lavoro è quello di un comportamento, tenuto dal lavoratore, che possa ritenersi concausa dell'evento o, addirittura, causa efficiente dello stesso. In sostanza, è vero che c'è stato l'infortunio, ma il lavoratore stesso non solo non ha fatto nulla per evitarlo, ma, magari, si è posto nella situazione di rischio, si per sua colpa o negligenza, sia per inosservanza delle disposizioni aziendali. E' il problema del concorso del comportamento abnorme tenuto dal dipendente nel verificarsi del fatto. Si tratta di una argomento di particolare interesse, anche perchè, a quel che sembra, la giurisprudenza si sta evolvendo in un senso più favorevole all'imprenditore. Si deve precisare, preliminarmente, che, in caso d’infortunio – secondo l'opinione fino a poco fa assolutamente dominante - la responsabilità del datore di lavoro fosse talmente ampia, da non poter essere esclusa, neppure, da condotte negligenti e imperite del lavoratore, anche se hanno contribuito al verificarsi dell'evento. In sostanza, per le più varie ragioni, il lavoratore poteva aver sbagliato nell'effettuare i suoi compiti, essersi distratto o aver violato le prescrizioni, ma tutto ciò non era ritenuto sufficiente ad esimere la responsabilità dell'imprenditore, specie se si trattava di un evento che ricompreso nel rischio tipico della lavorazione svolta. La ragione di questa opinione risiedeva nel fatto che, data la posizione di garanzia dell'imprenditore, essa si estende alla previsione, anche, dell'incuria altrui. Tale posizione di garanzia è tanto ampia da non poter essere esclusa, per il caso di comportamento negligente – ad esempio – da parte del lavoratore in quanto la posizione di garante si estende a prevedere – e, sperabilmente, ovviare – anche alla negligenza altrui, con un controllo – proprio o per interposta persona – particolarmente penetrante. Per certi versi, si tratta di quella responsabilità che deriva dalla disciplina dell'art. 40, II comma, c.p. secondo cui “non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. “ Il dato normativo vigente (d.lgs. 81/2008) impone al datore di lavoro di esigere il rispetto – anche con la coazione di provvedimenti disciplinari - delle regole di cautela da parte del lavoratore (art. 18, co. I, lett. f), stabilendo un vero e proprio dovere di vigilanza del datore di lavoro sull’adempimento degli obblighi prevenzionali previsti a carico dei lavoratori stessi (art. 18 , co. III bis). Occorre, cioè, che il datore di lavoro, per adempiere alla sua posizione di garanzia, preveda rimedio, anche, all'errore o alla distrazione del dipendente, facendo il possibile per evitare le conseguenze di essa, di fatto proteggendo il lavoratore dalla sua stessa, possibile, imprudenza. La giurisprudenza, dunque, in prima istanza, si è orientata nel senso che il datore di lavoro sia, di fatto, sempre, responsabile per l'infortunio, anche il caso di colpa del lavoratore, in quanto con il proprio continuo controllo, ovvero con ulteriori misure prevenzionali. avrebbe dovuto o potuto evitare l'infortunio. Con questa prima ipotesi interpretativa, dunque, il datore di lavoro poteva essere esente da responsabilità solo per il caso di un comportamento tanto abnorme del lavoratore, cioè di un comportamento così imprevedibile, così al di fuori del contesto lavorativo, da esserne, di fatto, estraneo: si tratta, cioè, di ipotesi tanto marginali da potersi definire casi di scuola. Con più recenti sentenze, però, la Cassazione, accanto al comportamento abnorme tenuto dal lavoratore, introduce il concetto di comportamento esorbitante. Per esso si deve intendere quel comportamento che, pur ricompreso nel mansionario del lavoratore e pur, altrettanto, strettamente connesso all’attività lavorativa, sia assolutamente imprevedibile. Si sposta, quindi, l'attenzione dal dato oggettivo – attività astrattamente compresa nel mansionario – a quello soggettivo, cioè il modo con cui il lavoratore esegue la lavorazione. In pratica, pur in presenza di attività strettamente connessa con lo svolgimento dell’attività lavorativa, per attribuire la responsabilità dell'infortunio al datore di lavoro, si deve prendere in esame la prevedibilità o imprevedibilità della condotta del lavoratore, essendo ovvio che, per il caso di condotta imprevedibile, si potrà escludere la responsabilità del datore di lavoro. In tal senso, quest'ultimo – e, anche, il responsabile per la sicurezza e la prevenzione – dovranno essere assolti una volta che, prese tutte le cautele possibili, l'infortunio (nella specie, una caduta dall’alto) era addebitabile ad una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore (Cass. 3.3.2016 n.° 8883). Si noti che si parla di cautele, dunque, non solo le misure ordinariamente previste dalla normativa – ad esempio, tavole ferma piede, reti protettive, ecc. - , ma quel quid pluris che consenta di far ritenere soddisfatta, anche oltre il dettato normativo, la posizione di garanzia avendo offerto e messo in opera, anche a livello organizzativo, tutte le possibili precauzioni. Con buona sostanza, si sostituisce il criterio meramente estrinseco delle mansioni svolte dal lavoratore, con l'altro, della prevedibilità dell'evento e, correlativamente, del comportamento tenuto dal prestatore di lavoro. Si tratta di una lettura che, appare essere, prima di tutto, più costituzionalmente orientata, in quanto riduce lo spazio di una possibile (per quanto negata in materia da dottrina e giurisprudenza) responsabilità oggettiva, proprio perchè se il prevedere le possibilità di infortunio - per evitarlo - è parte imprescindibile dell'attività imprenditoriale, riconosce, ove difetti l'imprevedibilità, la responsabilità del datore di lavoro non per la sua mera posizione apicale, ma per non aver saputo – quantomeno in violazione dell'art. 2087 c.c., norma di chiusura – prevedere e, dunque, prevenire un evento che imprevedibile non era. Si tratta di un modo di vedere sorretto anche da altre pronunce (segnatamente Cass. 10.6.2016 n.° 24139) che sembra sottolineare la ripartizione “collaborativa” delle obbligazioni relative alla sicurezza, anche a carico degli stessi lavoratori e ciò in linea con la ratio legis del D.Lgs. n.° 81/2008 di diffondere - senz'altro tra i datori di lavoro, ma anche tra il lavoratori - la “cultura” della sicurezza sui luoghi di lavoro.

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