Giovanni Merli

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REVOCA DELLA DETENZIONE DOMICILIARE COME SI DETERMINA LA PENA ESPIATA Differenze con l'affidamento in prova

Scritto da: Giovanni Merli - Pubblicato su IUSTLAB

Pubblicazione legale:

REVOCA DELLA DETENZIONE DOMICILIARE

COME SI DETERMINA LA PENA ESPIATA

Differenze con l'affidamento in prova

Le misure alternative alla detenzione rivestono nel nostro ordinamento penitenziario un'importanza determinante, sia per assicurare l'osservanza del precetto costituzionale della funzione rieducativa della pena, sia per motivi di “politica” della gestione dell'universo carcerario.

Il sistema, per quanto abbastanza coerente, si presta, però, a delle discrasie che possono causare del contenzioso inutile.

Il caso è abbastanza semplice.

L'assistito, giovane tossicodipendente, viene messo a scontare un modesto residuo di pena in regime di detenzione domiciliare ed ha la facoltà di recarsi al SERT territorialmente competente per ricevere il trattamento metadonico.

Nel corso di una di queste uscite autorizzate il giovane pensa bene di commettere un furto che si trasforma in una rapina impropria con arresto in flagranza.

Il Magistrato di Sorveglianza, dapprima, sospende la misura della detenzione domiciliare e il Tribunale di Sorveglianza provvede alla revoca.

Fin qui nulla di strano, sarebbe stato, invero, che non fosse andata così.

Il problema nasce con l'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza che, oltre a revocare la misura della detenzione domiciliare dichiara che considerava correttamente espiata la pena non fino al giorno dell'arresto, ma solo per un periodo antecedente, così di fatto protraendo la durata della pena di circa sei mesi.

In effetti, nel caso dell'affidamento in prova, qualora venga revocata quella misura alternativa, il Tribunale di Sorveglianza deve valutare fino a quando si possa ritenere correttamente espiata la pena.

La ragione di ciò deve ricercarsi nel fatto che l'affidamento viene concesso sulla scorta di un programma, sia esso terapeutico o lavorativo, poco importa, atto a favorire il reinserimento sociale.

Per tale ragione, se vengono violate le prescrizioni si dovrà valutare da parte dell'Autorità Giudiziaria fino a quando il programma sia stato svolto correttamente e, conseguentemente, si potrà solo fino a quella data ritenere espiata la pena in regime di affidamento in prova.

Ritenendo l'ordinanza abnorme, si ricorreva in Cassazione portando a sostegno dell'impugnazione le seguenti considerazioni.

In primo luogo, si eccepiva la mancata o manifesta illogicità della motivazione con manifesto travisamento dei fatti.

Infatti, la ricorsa ordinanza affermava che si dovesse far luogo a rideterminazione della pena in quanto, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 343 del 15.10.1987, il Tribunale, nel procedere alla revoca dell'affidamento in prova, deve determinare la durata della pena da scontare, tenendo conto sia del periodo di prova trascorso dal condannato nell'osservanza delle prescrizioni imposte e del concreto carico di queste, sia della gravità oggettiva e soggettiva del comportamento che ha dato luogo alla revoca.

Ma, nella fattispecie, il ricorrente non era in regime di affidamento in prova, ma, di detenzione domiciliare, cioè misura del tutto diversa rispetto a quella dell'affidamento.

Da tale travisamento dei fatti, non può che discendere, come chiarito in ricorso, altro che l'inosservanza od erronea applicazione della legge penale.

Tale vizio appare di ogni evidenza ove si consideri la differenza tra gli istituti della detenzione domiciliare e dell'affidamento in prova.

Notoriamente, la detenzione domiciliare è misura alternativa alla detenzione alla quale possono essere ammessi i condannati con una pena (o un residuo di pena) inferiore ai due anni e, in caso di particolari necessità famigliari, di lavoro, etc., i condannati con pena inferiore ai quattro anni.

Altrettanto noto è che l'affidamento in prova è, invece, misura alternativa alla detenzione alla quale possono essere ammessi i condannati con una pena (o un residuo di pena) inferiore ai tre anni (inferiore ai quattro anni quando si tratta di persone tossicodipendenti o alcooldipendenti).

L'inserimento nella normativa penitenziaria della previsione dell'art. 47 ter costituisce senza dubbio uno degli apporti più rilevanti della legge 10 ottobre 1986, n. 663, la quale viene a porre la detenzione domiciliare come forma di esecuzione, per una determinata categoria di soggetti, della pena detentiva a regime attenuato svolta in un luogo diverso dal carcere, sia esso rappresentato dalla propria abitazione, da altro luogo di privata dimora o da luogo pubblico di cura od assistenza.

Attraverso la detenzione domiciliare si è data attuazione ai precetti costituzionali sanciti all'art. 27, comma 3, Cost. in base al quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e all'art. 32 Cost. che tutela la salute come diritto fondamentale dell'individuo e l'interesse della collettività a rendere meno afflittiva l'espiazione della pena per quei soggetti destinatari che si trovano in particolari condizioni, tenendo conto delle condizioni specifiche in cui devono trovarsi i soggetti a cui è applicata, questa misura risulta anche caratterizzata, in particolare, da una finalità umanitaria ed assistenziale, essendo diretta a salvaguardare determinate situazioni particolari ritenute meritevoli di tutela, sostituendo la detenzione in carcere con altra meno afflittiva.

La detenzione domiciliare si pone come sviluppo logico, in sede di esecuzione della sentenza di condanna a pena detentiva, dell'analogo istituto processuale degli arresti domiciliari come misura alternativa o sostitutiva della custodia cautelare in carcere.

Così come gli arresti domiciliari infatti costituiscono una forma di detenzione preventiva a regime attenuato svolta in luogo diverso dagli istituti di custodia cautelare, la detenzione domiciliare rappresenta una forma di esecuzione della pena detentiva a regime attenuato svolta in luogo diverso dal carcere.

Ciò che non appare sufficientemente definito è invece il contenuto intrinseco della misura della detenzione domiciliare sul piano rieducativo.

Ciò a nostro avviso costituisce la più rilevante difformità tra l'affidamento in prova e la detenzione domiciliare, stante la funzione espressamente finalizzata alla risocializzazione, propria dell'affidamento, e quella, meramente contenitiva, sia pur in forma più blanda e, senz'altro, meno afflittiva della detenzione domiciliare.

La mancanza, infatti, nelle previsioni normative di cui si discute di un richiamo esplicito alle finalità della misura, a presupposti come quelli indicati per l'affidamento in prova nel secondo comma dell'art. 47 o.p., o per la semilibertà dal quarto comma dell'art. 50 o.p., nonché a qualsiasi nozione contenutisticamente significativa circa il trattamento da svolgere nel corso della misura, costituisce indubbiamente un fatto di rilievo.

La detenzione domiciliare, quindi, costituisce una mera modalità di esecuzione della pena riservata a ben individuate categorie di soggetti e non persegue nessuna funzione risocializzatrice.

Infatti le prescrizioni che possono essere adottate nei confronti del soggetto ammesso alla detenzione domiciliare attengono alle modalità di fruizione della misura e non alla sua crescita morale in vista di un'effettiva rieducazione.

Stante l'espressa assimilazione legislativa della detenzione domiciliare alla misura cautelare degli arresti domiciliari, la detenzione domiciliare risulta assai riduttiva, se non quasi completamente privativa della libertà del soggetto tanto che parte della dottrina l'ha configurata come caso limite tra la condizione carceraria e la misura alternativa, portando a conferma di questa interpretazione il carattere di extrema ratio dell'istituto, nell'ambito delle possibilità di scelta offerte dall'attuale panorama delle misure alternative.

Da tali considerazioni, quindi, deriva che il periodo trascorso anteriormente alla revoca in stato di detenzione domiciliare, sia che questa sia dovuta al venir meno delle condizioni soggettive previste per la sua concessione, sia che derivi dal comportamento del condannato, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate ed incompatibile con la prosecuzione della misura, debba essere considerato come pena espiata e detraibile perciò nel computo della pena residua da scontare.

Tale modo di vedere appare sorretto da varie pronunce giurisprudenziali e, in particolare, Cassazione penale, sez. I, sentenza 13/07/2006 n° 27853 con la quale si afferma che “è apparso, quindi, evidente che la detenzione domiciliare, sia per il carattere di indubbia invasiva coercizione della libertà personale, [attesi i caratteri di consimilarità rispetto alla correlativa misura cautelare dell'arresto domiciliare], sia per il profilo di specificità dei casi nei quali essa poteva essere applicata, è risultata, talora, una soluzione optativa di minor pregio giuridico rispetto a quegli istituti di diritto penitenziario richiamati per antonomasia.”, così parificando, anche alla luce della già richiamata assenza (o forte limitazione) di finalità risocializzatrice, la detenzione domiciliare a quella in istituto carcerario.

Particolare interesse, poi, riveste, ai nostri fini, la sentenza Cass. Sezione I Penale, 19-26 febbraio 2014, n.9314 in quanto, infatti, preliminarmente, rileva come con la pronuncia n. 343 del 1987 la Corte Costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale del L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 47, comma 10 nella parte in cui, in caso di revoca del provvedimento di ammissione all’affidamento in prova per comportamento incompatibile con la prosecuzione della prova, non stabilisce gli effetti conseguenti, ha affermato che il Tribunale di sorveglianza, una volta disposta la revoca della misura alternativa, debba procedere a determinare la residua pena detentiva ancora da espiare sulla scorta di una valutazione discrezionale, da condurre in considerazione della durata delle limitazioni patite dal condannato e del comportamento tenuto durante l’intero corso dell’esperimento.

A tal proposito, si rileva come la Consulta, effettuata la ricognizione dei contrapposti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali sulle conseguenze della revoca della misura, ha rilevato, con la sentenza in parola, l’incongruenza delle posizioni sino ad allora affermatesi e, in particolare, ha espresso dissenso per la tesi maggioritaria che, assegnando all’affidamento in prova una funzione essenzialmente rieducativa, riteneva che la revoca per il fallimento dell’esperimento avesse effetto retroattivo e determinasse il ripristino dell’originario rapporto punitivo, in quanto non teneva conto del contenuto sanzionatorio delle prescrizioni inerenti la misura, limitative della libertà personali e quindi necessariamente oggetto di valutazione in sede di revoca per stabilire quanto debba ancora essere espiato, per cui il non tenerne conto si poneva in contrasto col disposto dell’art. 13 Cost..

Si deve rilevare, però, che nella propria disamina, con la sentenza citata si veniva a criticare, anche, l'impostazione minoritaria, basata sulla equiparazione dell’affidamento in prova all’espiazione della pena quale sua modalità esecutiva, nel ritenere che il periodo scontato dovesse in ogni caso essere scomputato per intero dalla pena residua, avrebbe finito per introdurre ingiustificate parificazioni di trattamento tra la diversa situazione di coloro che avessero violato le leggi o le regole imposte sin dall’inizio e quanti vi fossero incorsi nel periodo conclusivo dell’esperimento.

Tal modo di vedere era sorretto dalla considerazione che, in tal modo si sarebbe eliminata la natura sanzionatoria e l’efficacia preventiva della revoca, con la conseguente disincentivazione a mantenere una condotta regolare in contrasto con la funzione rieducativa della misura.

Si rileva, per quel che riguarda l'odierna questione, che la pronuncia della Corte Costituzionale poneva fine, con una lettura costituzionalmente orientata, ad una diatriba dottrinale e giurisprudenziale in riferimento, ben si badi, solo ed esclusivamente alla misura dell'affidamento in prova, lasciando del tutto estranea ala decisione la questione della revoca della detenzione domiciliare che, per molti versi, altro non può che ritenersi del tutto analoga al trattamento intramurario, anche alla luce delle ben maggiori restrizioni imposte e così come si è in altra parte analizzato.

    A tal proposito, si rileva come l’efficacia della revoca della detenzione domiciliare è stata oggetto di diverse pronunce giurisprudenziali volte a colmare il vuoto legislativo presente nella legge 26 luglio 1975 n. 354.

    Infatti, la Corte costituzionale era intervenuta nella sola ed esclusiva materia dell'affidamento in prova dichiarando con le sentenze n. 312 del 1985 e n. 343 del 1987, l'illegittimità costituzionale dell'art. 47 della legge 26 luglio 1975 n. 354, nella parte in cui non prevedeva nel computo della pena da espiare il periodo patito a titolo di affidamento in prova al servizio sociale antecedente alla revoca del provvedimento.

    Inoltre la stessa Corte Costituzionale con sentenza 327 del 1989 ha definito la detenzione domiciliare una modalità di esecuzione della pena, caratterizzata dalla soggezione a prescrizioni limitative della libertà, dalla vigilanza del magistrato di sorveglianza, dall'intervento del servizio sociale, ma di contenuto "meno favorevole al condannato" rispetto all'affidamento in prova al servizio sociale.

    Tale indirizzo è stato fatto proprio dalla sentenza la Corte di Cassazione con la sentenza I Sez. 15.10.2009 n.° 41348 che, peraltro, conferma l’orientamento già espresso dalla decisione della stessa Suprema Corte, Sez. Feriale n. 29821 del 27 luglio 2005, con la quale si statuiva che la detenzione domiciliare "costituisce un modo di espiazione della pena che può essere revocata qualora vengano meno i presupposti che ne hanno legittimato l'adozione; in tal caso la revoca ha efficacia ex nunc e non ex tunc in quanto, avuto riguardo alla natura dell'istituto in questione, il periodo trascorso in detenzione domiciliare deve essere computato come pena espiata".

    La Prima Sezione della Corte di Cassazione, con la citata sentenza 15.10.2009 n.° 41348, ha infatti affermato come nel caso di revoca del regime alternativo della detenzione domiciliare, il periodo trascorso in detenzione costituisca una particolare forma di "espiazione" della pena della reclusione o dell'arresto nell’abitazione del soggetto o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza.

    Esso rappresenta un "modo" di esecuzione della pena adottato nei confronti di particolari categorie di condannati per i quali l’ordinaria detenzione potrebbe risultare dannosa sotto il profilo fisico e psicologico e perciò priva di una concreta funzione rieducativa e, anzi, a nostro avviso, contraria, oltre che alla norma costituzionale, anche a quella internazionale, così come si evince dalla lettura dell'art. 3 CEDU, norma sovranazionale, recepita dall'ordinamento interno.

    Pertanto, in ragione delle caratteristiche proprie dell'istituto della detenzione domiciliare come descritte dalla giurisprudenza menzionata, come si legge nella parte motiva della citata sentenza “...la revoca della detenzione ha un’efficacia ex nunc sicchè il periodo trascorso in detenzione domiciliare non potrà non essere computato nel calcolo della pena espiata.”.

    Alla luce delle considerazioni svolte, la Suprema Corte di Cassazione accoglieva il ricorso avverso l'ordinanza e ne disponeva l'annullamento senza rinvio, così permettendo che l'intero periodo di detenzione domiciliare fosse computato ai fini della determinazione del fine pena.



Avv. Giovanni Merli - Avvocato penalista in firenze

Sono Giovanni Merli, esperto in diritto penale sia ordinario (reati comuni), sia in riferimento al diritto penale d’impresa (con particolare riguardo alla difesa in caso di infortuni sul lavoro), sia come difensore dell'imputato, sia del danneggiato (parte civile). Stabilisco a livello personale un rapporto franco e diretto con i clienti per la migliore gestione del caso. Mi occupo volentieri di diritto di famiglia, trattandosi di materia che spesso correlata alle vicende penali e di risarcimento del danno da reato. Opero in tutta Italia.




Giovanni Merli

Esperienza


Sicurezza ed infortuni sul lavoro

In materia di infortuni sul lavoro ho difeso numerosi imprenditori, accusati di lesioni colpose con buoni risultati. L'interesse sviluppato per la materia mi ha portato ad approfondirne lo studio con ricerche di giurisprudenza e la redazione di alcuni articoli, così da poter offrire oltre che la sola pratica esperienza, anche una solida preparazione scientifica indispensabile in una materia alquanto complessa. Va da sè che ho assitito, anche, numerosi lavoratori quali danneggiati degli infortuni sul lavoro.


Stalking e molestie

Ho potuto difendere in numerosi procedimenti, sia curando la difesa dell'imputato che gli interessi delle vittime, impegnandomi ad individuare la sussistenza, o meno, degli elementi del reato di stalking anche attraverso un'analisi accurata del profilo vittimologico e la ricostruzione probatoria anche di episodi apparentemente di scarso rilievo.


Reati contro il patrimonio

Ho difeso innumerevoli procedimenti per furti, ricettazione, rapine, ecc. pur essendo i più comuni reati da difendere, solo con molti anni di esperienza ho potuto maturare strategie processuali che, se non vi era la possibiltà di eescludere la responsabilità, fossero da garantire un'efficace difesa, attraverso la derubricazione o l'applicazione del regime del tentativo, con importanti riduzioni di pena.


Altre categorie:

Sostanze stupefacenti, Diritto penitenziario, Incidenti stradali, Diritto di famiglia, Omicidio, Gratuito patrocinio, Cassazione, Domiciliazioni, Risarcimento danni.


Referenze

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IL DATORE DI LAVORO E' RESPONSABILE PER L'INFORTUNIO AVVENUTO A CHI NON LAVORA PER LUI?

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IL DATORE DI LAVORO E' RESPONSABILE PER L'INFORTUNIO AVVENUTO A CHI NON LAVORA PER LUI? Sicuramente, gli imprenditori non svolgono la loro attività per scopo benefico, ma per lucro e, analogamente, i lavoratori per ricevere lo stipendio. La responsabilità del datore di lavoro in materia di prevenzione degli infortuni, dettata dal D. Lgs. 81/2008 è così ampia, che sarebbe, invero, illogico limitare i beneficiari a solo alcune categorie. Per tale motivo, ovviamente, lavoratore non sarà solo chi è iscritto a libro paga di una determinata azienda, ma chiunque svolga un’attività lavorativa all’interno dell’impresa, vista come organizzazione di un datore di lavoro sia esso pubblico che privato. La normativa antinfortunistica troverà, quindi, applicazione indipendentemente dalla tipologia contrattuale che lega il lavoratore all’impresa, da un lato, ma, anche, indipendentemente dal fatto che questi svolga la sua attività gratuitamente o per ricevere un compenso. In questo senso, quindi, anche colui che presti la propria attività occasionalmente, a puro titolo di favore o di amicizia, o anche per scopi solidaristici (si pensi al partecipante ad un’attività di volontariato), si trova ad essere soggetto alla normativa antinfortunistica, con la conseguenza che colui che lo ha adibito a svolgere quell’attività (si ripete, a puro titolo gratuito e con la volontaristica adesione del prestatore d’opera) deve osservare la normativa antinfortunistica, restando responsabile per il caso di sinistro che è, per la norma, un infortunio sul lavoro a tutti gli effetti. A tale proposito appare essere illuminante la sentenza della Cassazione del 7.5.2010, secondo cui anche il figlio del proprietario dell’azienda che si trovi coinvolto, occasionalmente, in un sinistro durante un suo accesso ai locali dell’impresa paterna, è soggetto alla disciplina antinfortunistica, con correlativa responsabilità penale del padre per l’infortunio, in quanto il D.Lgs. 626/1994 tutela tutte le forme di lavoro, anche quando non sussista un formale rapporto di lavoro (nella specie, il giovane, studente universitario, era, semplicemente, andato a trovare il genitore). Si tratta di un'applicazione rigorosa della posizione di garanzia, propria del datore di lavoro per la sicurezza delle lavorazioni, che si estende a chiunque acceda ai locali aziendali, a prescindere dal motivo per cui accede, in quanto il dovere di garantire la sicurezza, intesa, in ultima analisi come garanzia dell'integrità fisica dei terzi, non può trovare limitazione nella sussistenza, o meno, del rapporto di lavoro contrattualmente inteso. Si vedrà che il D.Lgs. 81/2008 si spinge anche oltre, rispetto il D.Lgs. 626/1994, visto che la necessità di garantire la sicurezza si estende ad ogni accesso ai locali di lavoro, anche a soggetti che non hanno con l'attività imprenditoriale alcun legame. Così, anche il datore di lavoro – l'imprenditore, cioé – potrà essere ritenuto responsabile dell'infortunio occorso, ad esempio, ad un cliente che sia entrato in azienda per chiedere informazioni sui prodotti o all'agente di commercio che lì si rechi per trattare un affare. Il D.Lgs. 81/2008, infatti, non si limita a dettare delle prescrizioni, così come facevano i D.p.R. degli anni Cinquanta (peraltro, dal punto di vista strettamente ecnico, tuttora ottimi), ma impone l'obbligo per l'imprenditore di monitorare la situazione di fatto applicando ogni accortezza ragionevolmente prevedibile, anche se non direttamente imposta da una norma, che possa evitare, proprio per la situazione di fatto esistente, il verificarsi di un infortunio: si tratta, in ultima analisi, dell'applicazione della norma di chiusura dettata dall'art. 2087 c.c..

Pubblicazione legale

RAPPORTI TRA LA RESPONSABILITA' DEL DATORE DI LAVORO E QUELLA DEL PREPOSTO PER IL CASO DI INFORTUNIO SUL LAVORO

Pubblicato su IUSTLAB

RAPPORTI TRA LA RESPONSABILITA' DEL DATORE DI LAVORO E QUELLA DEL PREPOSTO In materia di infortuni sul lavoro deve porsi la massima attenzione, per individuare le responsabilità, a chi, nel caso concreto, assume la c.d. posizione di garanzia. Il problema è annoso e di notevole delicatezza, stante il divieto di responsabilità oggettiva in campo penale, tanto che vi è stato un notevole dibattito sulla lettura costituzionalmente orientata delle norme in materia. E' troppo facile, infatti, ritenere responsabile colui che risulti, formalmente, datore di lavoro con una meccanica trasposizione della norma civilistica in campo penale. Si tratta, semmai, di individuare chi, al momento dell'infortunio, aveva il dovere di attivarsi affinché non si verificasse con un criterio di concretezza. Da un certo punto di vista, anche in forza dell'art. 2087 c.c., le responsabilità sembrano, generalmente e genericamente, ricadere sul datore di lavoro, ma non è sempre così. Anche volendo prescindere dalla facoltà del datore di delegare – sia pure con le forme previste dalla norma e, dunque, con atto scritto di data certa, debitamente posto a conoscenza – ad altri le funzioni di prevenzione e vigilanza antinfortunistica, appare evidente la possibilità che la posizione di garanzia del datore di lavoro possa essere assunta da altre figure. A tale proposito appare interessante la sentenza 25.6.2015 n.° 26994, IV Sezione Penale della Corte di Cassazione, secondo cui la responsabilità del datore di lavoro non può essere, apoditticamente, affermata per il sol fatto che si è verificato un infortunio sul lavoro. Nel caso sottoposto all'esame della Corte, si era verificato un infortunio per omesso utilizzo della cintura di sicurezza da parte del lavoratore e di esso era stato ritenuto responsabile il datore di lavoro. La Corte, affermando il principio che nella valutazione delle responsabilità per l'infortunio occorre rifuggire da automatismi, dovendosi, invece, valutare ed individuare quale particolare regola cautelare violata sia stato l'antefatto causale dell'evento. Per tale motivo, se, come è avvenuto, l'infortunio si è verificato per l'omessa adeguata vigilanza circa l' utilizzo della cintura di sicurezza da parte del dipendente, tale violazione " rimanda alla sfera di rischio gestita dal preposto , i cui compiti sono quelli di sovrintendere alla attività lavorativa e garantire l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa". Ne segue che l'omessa vigilanza deve essere attribuita al preposto, direttamente posto a contatto con le lavorazioni da eseguire e, dunque, cui fa carico l'obbligo di vigilare sull'utilizzo degli strumenti di sicurezza da parte dei lavoratori. Ora se è vero che il datore di lavoro ha il dovere di vigilare sull'operato del preposto, tale obbligo non può estendersi al continuativo – e minuto - controllo dell'operato di quest'ultimo, vanificandosi, diversamente, la stessa funzione professionale e di inserimento nell'organigramma aziendale. Appare così evidente che la responsabilità del datore di lavoro, per il caso di nomina di preposto alle lavorazioni, potrà ritenersi esistente solo casi residuali, come, ad esempio, di una culpa in eligendo , per aver scelto quale preposto un soggetto privo delle competenze tecniche e professionali per lo svolgimento della mansione. Apparentemente, ma solo apparentemente, si potrebbe porre il problema delle disposizioni impartite al preposto dal datore di lavoro in materia di prevenzione. Infatti, se le disposizioni impartite sono in contrasto con la normativa, o, anche, solo con la “buona tecnica”, il preposto non sarà liberato dalla responsabilità in quanto la norma non può essere derogata dagli “ordini” dell'imprenditore. In tal caso, infatti, il preposto dovrebbe dissociarsi e non dare esecuzioni a disposizioni contrarie alla norma, diversamente, lungi dall'essere liberato dalla responsabilità, verrebbe a concorrere nel reato.

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SE IL LAVORATORE SI COMPORTA IN MODO IMPREVEDIBILE L'IMPRENDITORE E' RESPONSABILE DELL' INFORTUNIO?

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SE IL LAVORATORE SI COMPORTA IN MODO IMPREVEDIBILE L'IMPRENDITORE E' RESPONSABILE DELL' INFORTUNIO? Un problema che si presenta, con una certa frequenza, in materia di infortuni sul lavoro è quello di un comportamento, tenuto dal lavoratore, che possa ritenersi concausa dell'evento o, addirittura, causa efficiente dello stesso. In sostanza, è vero che c'è stato l'infortunio, ma il lavoratore stesso non solo non ha fatto nulla per evitarlo, ma, magari, si è posto nella situazione di rischio, si per sua colpa o negligenza, sia per inosservanza delle disposizioni aziendali. E' il problema del concorso del comportamento abnorme tenuto dal dipendente nel verificarsi del fatto. Si tratta di una argomento di particolare interesse, anche perchè, a quel che sembra, la giurisprudenza si sta evolvendo in un senso più favorevole all'imprenditore. Si deve precisare, preliminarmente, che, in caso d’infortunio – secondo l'opinione fino a poco fa assolutamente dominante - la responsabilità del datore di lavoro fosse talmente ampia, da non poter essere esclusa, neppure, da condotte negligenti e imperite del lavoratore, anche se hanno contribuito al verificarsi dell'evento. In sostanza, per le più varie ragioni, il lavoratore poteva aver sbagliato nell'effettuare i suoi compiti, essersi distratto o aver violato le prescrizioni, ma tutto ciò non era ritenuto sufficiente ad esimere la responsabilità dell'imprenditore, specie se si trattava di un evento che ricompreso nel rischio tipico della lavorazione svolta. La ragione di questa opinione risiedeva nel fatto che, data la posizione di garanzia dell'imprenditore, essa si estende alla previsione, anche, dell'incuria altrui. Tale posizione di garanzia è tanto ampia da non poter essere esclusa, per il caso di comportamento negligente – ad esempio – da parte del lavoratore in quanto la posizione di garante si estende a prevedere – e, sperabilmente, ovviare – anche alla negligenza altrui, con un controllo – proprio o per interposta persona – particolarmente penetrante. Per certi versi, si tratta di quella responsabilità che deriva dalla disciplina dell'art. 40, II comma, c.p. secondo cui “non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. “ Il dato normativo vigente (d.lgs. 81/2008) impone al datore di lavoro di esigere il rispetto – anche con la coazione di provvedimenti disciplinari - delle regole di cautela da parte del lavoratore (art. 18, co. I, lett. f), stabilendo un vero e proprio dovere di vigilanza del datore di lavoro sull’adempimento degli obblighi prevenzionali previsti a carico dei lavoratori stessi (art. 18 , co. III bis). Occorre, cioè, che il datore di lavoro, per adempiere alla sua posizione di garanzia, preveda rimedio, anche, all'errore o alla distrazione del dipendente, facendo il possibile per evitare le conseguenze di essa, di fatto proteggendo il lavoratore dalla sua stessa, possibile, imprudenza. La giurisprudenza, dunque, in prima istanza, si è orientata nel senso che il datore di lavoro sia, di fatto, sempre, responsabile per l'infortunio, anche il caso di colpa del lavoratore, in quanto con il proprio continuo controllo, ovvero con ulteriori misure prevenzionali. avrebbe dovuto o potuto evitare l'infortunio. Con questa prima ipotesi interpretativa, dunque, il datore di lavoro poteva essere esente da responsabilità solo per il caso di un comportamento tanto abnorme del lavoratore, cioè di un comportamento così imprevedibile, così al di fuori del contesto lavorativo, da esserne, di fatto, estraneo: si tratta, cioè, di ipotesi tanto marginali da potersi definire casi di scuola. Con più recenti sentenze, però, la Cassazione, accanto al comportamento abnorme tenuto dal lavoratore, introduce il concetto di comportamento esorbitante. Per esso si deve intendere quel comportamento che, pur ricompreso nel mansionario del lavoratore e pur, altrettanto, strettamente connesso all’attività lavorativa, sia assolutamente imprevedibile. Si sposta, quindi, l'attenzione dal dato oggettivo – attività astrattamente compresa nel mansionario – a quello soggettivo, cioè il modo con cui il lavoratore esegue la lavorazione. In pratica, pur in presenza di attività strettamente connessa con lo svolgimento dell’attività lavorativa, per attribuire la responsabilità dell'infortunio al datore di lavoro, si deve prendere in esame la prevedibilità o imprevedibilità della condotta del lavoratore, essendo ovvio che, per il caso di condotta imprevedibile, si potrà escludere la responsabilità del datore di lavoro. In tal senso, quest'ultimo – e, anche, il responsabile per la sicurezza e la prevenzione – dovranno essere assolti una volta che, prese tutte le cautele possibili, l'infortunio (nella specie, una caduta dall’alto) era addebitabile ad una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore (Cass. 3.3.2016 n.° 8883). Si noti che si parla di cautele, dunque, non solo le misure ordinariamente previste dalla normativa – ad esempio, tavole ferma piede, reti protettive, ecc. - , ma quel quid pluris che consenta di far ritenere soddisfatta, anche oltre il dettato normativo, la posizione di garanzia avendo offerto e messo in opera, anche a livello organizzativo, tutte le possibili precauzioni. Con buona sostanza, si sostituisce il criterio meramente estrinseco delle mansioni svolte dal lavoratore, con l'altro, della prevedibilità dell'evento e, correlativamente, del comportamento tenuto dal prestatore di lavoro. Si tratta di una lettura che, appare essere, prima di tutto, più costituzionalmente orientata, in quanto riduce lo spazio di una possibile (per quanto negata in materia da dottrina e giurisprudenza) responsabilità oggettiva, proprio perchè se il prevedere le possibilità di infortunio - per evitarlo - è parte imprescindibile dell'attività imprenditoriale, riconosce, ove difetti l'imprevedibilità, la responsabilità del datore di lavoro non per la sua mera posizione apicale, ma per non aver saputo – quantomeno in violazione dell'art. 2087 c.c., norma di chiusura – prevedere e, dunque, prevenire un evento che imprevedibile non era. Si tratta di un modo di vedere sorretto anche da altre pronunce (segnatamente Cass. 10.6.2016 n.° 24139) che sembra sottolineare la ripartizione “collaborativa” delle obbligazioni relative alla sicurezza, anche a carico degli stessi lavoratori e ciò in linea con la ratio legis del D.Lgs. n.° 81/2008 di diffondere - senz'altro tra i datori di lavoro, ma anche tra il lavoratori - la “cultura” della sicurezza sui luoghi di lavoro.

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