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Il "problema" dolo specifico nel delitto di furto

Scritto da: Giulio Errico - Pubblicato su IUSTLAB

Pubblicazione legale:

L’art. 624 c.p. prevede la reclusione da 6 mesi a 3 anni e la multa da euro 154 a 516 nei confronti di «chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri».

In relazione all’elemento soggettivo del delitto di furto, in giurisprudenza si sono delineati due orientamenti contrapposti.

Un primo, risalente agli anni ottanta dello scorso secolo (Sez. 2, n. 9411 del 06/03/1978, Sessa, Rv. 139694; Sez. 2, n. 9983 del 26/04/1983, Lo Nardo, RV. 161352; Sez. 2, n. 4471 del 12/02/1985, Bazzani, Rv. 169109), secondo cui la nozione di “profitto”, perseguita dal soggetto attivo del reato, deve essere intesa in senso ampio.

Esso, infatti, non andrebbe identificato con un vantaggio di natura strettamente economica, potendo consistere anche in un’utilità non patrimoniale, realizzata mediante coscienza e volontà di sottrarre la cosa mobile altrui.

In base a tale orientamento, per la configurabilità dell’art. 624 c.p. è sufficiente che l’agente ponga in essere una condotta orientata al perseguimento di un profitto, essendo irrilevante la concretizzazione, sul piano oggettivo, di un vantaggio economicamente apprezzabile.

Il rischio, puntualmente rilevato da Sez. 4, n. 13842 del 26/11/2019, Rv. 278865, è che la limitazione della punibilità delle condotte di volontaria sottrazione ed impossessamento di cose mobili altrui alle sole ipotesi di sottrazione dettata da finalità economiche priverebbe di tutela penale il possesso delle cose mobili in caso di lesioni dettate da motivazioni non economiche.

In tal senso, Sez. 5, n. 4304/2021 del 14/12/2020, dep. 03/02/2021, in un caso in cui era stato accertato che l’imputato avesse sottratto una macchina fotografica al fine di impedire lo scatto di fotografie, ha ribadito che nella nozione di profitto può ricomprendersi anche lo scopo di realizzare un’utilità non suscettibile di apprezzamento economico, osservando che «il fine di profitto – nel quale si concreta il dolo specifico del reato – non si identifica necessariamente con l’animus lucrandi, e quindi non ha necessario riferimento alla volontà di trarre un’utilità patrimoniale dal bene sottratto, giacché deve ritenersi incluso nella previsione della norma il perseguimento di qualsiasi soddisfazione o vantaggio che al soggetto possa derivare dalla cosa sottratta, che può anche consistere nel soddisfacimento di un bisogno psichico e rispondere, quindi, a una finalità di dispetto, ritorsione, vendetta o rappresaglia».

Secondo, invece, un orientamento più recente, la nozione di profitto di cui alla fattispecie incriminatrice in esame deve essere interpretata in senso restrittivo.

Una “dilatazione” del concetto penalmente rilevante di profitto comporterebbe, del resto, l’inosservanza del dato letterale e sistematico dell’inserimento del furto nei delitti contro il patrimonio, che rappresenta il bene giuridico tutelato dalla norma.

Sul tema, Sez. 5, n. 30073 del 23/10/2018, Rv. 273561, in una vicenda relativa alla sottrazione di una borsa per finalità di reazione/dispetto nei confronti della vittima, ha precisato che «un’eccessiva e espansione della nozione di profitto, estesa fino a raggiungere qualsiasi utilità soggettivamente ritenuta apprezzabile, arrivando ad identificare lo scopo di lucro previsto nella fattispecie astratta con la generica volontà di tenere per sé la cosa,può comportare l’annullamento della previsione normativa,che implica la necessità del dolo specifico».

Assumendo, infatti, il “fine del profitto” la funzione di delimitare i fatti punibili a titolo di furto, l’utilità realizzata dall’agente deve essere necessariamente collocata in una dimensione economica-patrimoniale; non solo per delimitare il perimetro applicativo dell’art. 624 c.p. ma anche per distinguere il furto da altre figure di reato non caratterizzate dallo scopo di profitto da parte del soggetto attivo.

Alle medesime conclusioni è giunta Sez. 5, n. 25821 del 05/04/2019, Rv. 276516, che ha ritenuto insussistente l’elemento soggettivo del reato di furto in un caso nel quale un rappresentante sindacale aveva asportato due fusibili dalla scatola di derivazione elettrica di una saracinesca del magazzino dell’azienda dove lavorava per consentire ai colleghi di uscire fuori per porre in essere atti di protesta contro il datore di lavoro.

Anche la giurisprudenza più recente, d’altro canto, si è interrogata sulla nozione penalmente rilevante di profitto ed ha chiarito che esso deve identificarsi con la finalità del soggetto agente di conseguire un incremento della propria sfera patrimoniale, indipendentemente dalla capacità del bene di soddisfare un bisogno umano, materiale o spirituale.

Di conseguenza, l’elemento del profitto può dirsi integrato ove sia accertato che l’autore del fatto materiale abbia agito per ottenere un vantaggio patrimoniale quale fine “diretto e immediato” dell’azione tipica, sia pure con l’intento di ottenere il soddisfacimento di un bisogno ulteriore (anche solo spirituale).

Rilevata, quindi, l’esistenza dei contrapposti indirizzi interpretativi, con ordinanza n. 693/2023 (ud. 18 novembre 2022), la Sez. V della S.C. di Cassazione ha investito il massimo consesso nomofilattico del seguente quesito: se il fine di profitto, in cui si concerta il dolo specifico del delitto di furto, debba essere inteso solo come finalità dell’agente di incrementare la sfera patrimoniale, sia pure in funzione del perseguimento di ulteriori fini conseguibili, ovvero se possa anche consistere nella volontà di trarre un’utilità non patrimoniale dal bene sottratto.


Avv. Giulio Errico - Avvocato Penalista

Avvocato iscritto all'Albo Ordinario, svolge attività di consulenza e assistenza legale in procedimenti penali. È autore di pubblicazioni su diverse riviste giuridiche ed è Dottorando di Ricerca in Diritto Processuale Penale presso l’Università “LUM – G. Degennaro”. Avendo, sin dall'inizio della pratica forense, approfondito la conoscenza del diritto penale e del diritto processuale penale, opera in tutti i settori del diritto penale, offrendo assistenza nei procedimenti riguardanti i reati contro lo Stato, la Pubblica Amministrazione e i Privati. Si occupa, inoltre, di misure di prevenzione e violazioni del T.U. sugli stupefacenti.




Giulio Errico

Esperienza


Diritto penale

Offre assistenza a coloro i quali intendano far valere i propri diritti nel processo. Il costante studio delle leggi penali sostanziali e processuali, unitamente all’esperienza maturata innanzi ai Tribunali e alle Corti, permette di fornire ai propri clienti una difesa puntuale ed attenta nei diversi ambiti del diritto penale.


Violenza

Svolge attività di consulenza e di assistenza legale in procedimenti penali riguardanti reati contro la persona e la famiglia. Ha maturato una solida esperienza nell'ambito di processi inerenti i seguenti delitti: violazione degli obblighi di assistenza familiare, abuso di mezzi di correzione o di disciplina, maltrattamenti contro familiari e conviventi, lesioni personali (anche colpose e stradali), rissa, omicidio colposo, omicidio stradale, omissione di soccorso e violenza privata.


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Sin dalla delicata fase delle indagini preliminari, offre assistenza legale in procedimenti penali riguardanti il delitto di atti persecutori (612 bis c.p.), introdotto dall'art. 7, D.L. n. 11/2009. L'approfondimento costante della tematica, nelle sue diverse forme e declinazioni (stalking relazionale, condominiale, lavorativo, ecc.), permette di aiutare colori i quali intendano far valere i propri diritti nel processo. Si occupa, inoltre, di procedimenti aventi ad oggetto molestie (612 c.p.). Ha curato la difesa in numerosi processi riguardanti casi di diffamazione (595 c.p.), in particolare mediante l'uso di internet.


Altre categorie:

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Referenze

Pubblicazione legale

La competenza per territorio nel reato di atti persecutori

Pubblicato su IUSTLAB

L’art. 612 bis c.p.p. prevede la pena di reclusione da un anno a sei anni e sei mesi nei confronti di chiunque, “con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”. L’art. 8 c.p.p. stabilisce, tuttavia, che per determinare la competenza per territorio (in termini “semplicistici” la città in cui si incardinerà l’eventuale procedimento per stalking) si deve aver riguardo al “luogo in cui il reato è stato consumato”. La questione non è di poco conto, giacché accade sovente che pur in presenza di condotte di molestie e minacce realizzate in un determinato luogo, il fatto di reato integrante il delitto di atti persecutori può manifestarsi in un momento e in un territorio differente (ovvero non coincidente con quello in cui il soggetto agente ha posto in essere le reiterate azioni di molestie e minacce). In tali casi, secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, “la competenza per territorio si determina in relazione al luogo in cui il disagio accumulato dalla persona offesa degenera in uno stato di prostrazione psicologica”. Secondo, infatti, Cass. Pen., Sez. V, 09/10/2019, n. 3042, la consumazione del reato di atti persecutori prescinde dall’accertamento del momento iniziale o finale delle singole condotte perpetrate dal soggetto agente, «assumendo, invece, a tal fine significato il comportamento complessivamente tenuto dal responsabile, sicché la competenza per territorio deve essere determinata in relazione al luogo in cui il comportamento stesso diviene riconoscibile e qualificabile come persecutorio ed in cui, quindi, il disagio accumulato dalla persona offesa degenera in uno stato di prostrazione psicologica»

Pubblicazione legale

Stalking condominiale: un triste fenomeno in aumento

Pubblicato su IUSTLAB

Negli ultimi anni, la giurisprudenza è stata costretta a confrontarsi con un nuovo fenomeno in ascesa noto come stalking condominiale. Ogni giorno, del resto, l’Autorità Giudiziara viene adita per casi di molestie e minacce verificatisi in ambito “condominiale”. Ma quand’è che le beghe di vicinato possono trasformarsi in veri e propri atti persecutori e, dunque, integrare astrattamente la fattispecie prevista dall’art. 612 bis c.p.? Sul quesito è intervenuta la Cassazione con sentenza n. 28340 dell’11/09/2019. La Quinta Sezione della Suprema Corte ha chiarito, innanzitutto, che il reato di stalking è configurabile anche in condominio. I Giudici di Piazza Cavour hanno, infatti, confermato la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di alcuni condomini che avevano pesantemente minacciato i vicini all’interno degli spazi comuni del condominio, in modo da cagionare un fondato timore per l’incolumità loro e dei loro familiari e da fare loro cambiare le abitudini di vita. In particolare, detti condomini si erano resi protagonisti di atti incendiari e danneggiamenti degli immobili dei vicini, tali da determinare nel condominio un grave clima di intimidazione.

Pubblicazione legale

Lesioni personali: il perimetro applicativo dell’art. 585, co. 2, c.p.

Pubblicato su IUSTLAB

Con sentenza del 26 settembre 2023, n. 45868, la Quinta Sezione della Corte di Cassazione si è pronunciata, nuovamente, sul concetto di arma impropria ai fini dell’aggravante preveduta dal primo capoverso dell’art. 585 c.p. I Giudici di Piazza Cavour, sul solco di un orientamento pressoché consolidato, hanno stabilito che il porto di un oggetto non destinato all’offesa cessa di essere giustificato nel momento in cui, per le circostanze di tempo, di luogo o per il concreto uso che dello strumento viene fatto, esso perde la propria connotazione di oggetto di uso comune e diventa invece un’arma impropria. Di conseguenza, un qualsiasi oggetto comune, che in una certa situazione possa essere utilizzato per l’offesa alla persona, è astrattamente qualificabile come arma ai fini della configurabilità dell’ aggravante di cui all’art. 585, co. 2, c.p. Gli esempi, in tal senso, destano non poche perplessità in relazione all’estensione del perimetro applicativo della norma. La Suprema Corte, infatti, ha inteso far rientrare nel concetto di arma impropria persino uno smartphone, adoperato allo scopo di percuotere la vittima del resto di lesioni personali (Cass. Pen., Sez. V, 30/11/2022, n. 7385).

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