Sono l'avv. Pietro Lauretta del Foro di Ragusa, mi occupo di diritto civile, diritto del lavoro e previdenziale, diritto dell'immigrazione e diritto penale. Presto assistenza legale sul piano stragiudiziale e giudiziale in favore di imprese e privati, nei settori di mia competenza. Per info recati il giovedì pomeriggio al Patronato ENASC Ragusa - via Monreale 4.
Assistenza e difesa tecnica nei procedimenti penali. Prevista l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, nei casi previsti dalla legge.
Ho trattato numerosi casi relativi a procedure di rinnovo del permesso di soggiorno, ricongiungimenti familiari, cittadinanza, e assistenza ai minori. Fornisco assistenza legale anche in favore di richiedenti protezione internazionale, nelle diverse fasi del procedimento.
Assistenza legale in materia di ricorsi nei confronti dell'INPS/INAIL per riconoscimento di rendite e pensioni varie.
Recupero crediti, Contratti, Diritto civile, Diritto commerciale e societario, Diritto assicurativo, Pignoramento, Diritto del lavoro, Licenziamento, Diritto sindacale, Violenza, Stalking e molestie, Reati contro il patrimonio, Omicidio, Diritto condominiale, Locazioni, Sfratto.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18672 dell'11.07.2019, hanno risolto una questione definita di massima importanza, avente a oggetto il contrasto giurisprudenziale insorto sull'effetto giuridico degli atti stragiudiziali ai fini dell'interruzione del termine annuale della garanzia per vizi della cosa venduta, così come imposto dall'art. 1495, comma 3, codice civile. L'art. 1495 c.c., in particolare, sancisce un termine di decadenza e uno di prescrizione dell'azione. Il primo comma del predetto articolo, infatti, stabilisce che " il compratore decade dal diritto alla garanzia, se non denunzia i vizi al venditore entro otto giorni dalla scoperta, salvo il diverso termine stabilito dalle parti o dalla legge ". Il terzo comma, stabilisce poi che " l'azione si prescrive, in ogni caso, in un anno dalla consegna... ". Quali sono gli atti idonei a interrompere il termine annuale di prescrizione dell'azione ex art. 1490 c.c.? Un primo indirizzo giurisprudenziale ha ritenuto atti idonei a interrompere la prescrizione dell'azione esclusivamente gli atti aventi natura giudiziale, ossia soltanto per il tramite della proposizione della domanda giudiziale (cfr. ex plurimis Cass. Civ., sez. 2, sent. n. 20705/2017). Si è formato, tuttavia, un secondo indirizzo di segno opposto al primo, secondo cui costituisce atto interruttivo della prescrizione della garanzia per vizi della cosa, anche la semplice manifestazione in via stragiudiziale al venditore della volontà -del compratore- di volerla esercitare, benchè lo stesso differisca a un momento successivo l'opzione per il tipo di azione giudiziale da esercitare (cfr. ex plurimis Cass. Civ., sez. 2, n. 22903 del 2015). Secondo tale ultimo orientamento, quindi, la prescrizione sarebbe interrotta anche dalla semplice manifestazione stragiudiziale del compratore diretta al venditore della volontà di volere esercitare l'azione di garanzia. La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, successivamente, è stata chiamata a dirimere tale contrasto giurisprudenziale con la sentenza in commento. Ebbene, le Sezioni Unite, propendendo per il secondo indirizzo giurisprudenziale hanno affermato il seguente principio di diritto: " nel contratto di compravendita, costituiscono -ai sensi dell'art. 2943, comma 4, c.c.- idonei atti interruttivi della prescrizione dell'azione di garanzia per vizi, prevista dall'art. 1495, comma 3, c.c., le manifestazioni extragiudiziali di volontà del compratore compiute nelle forme di cui all'art. 1219, comma 1, c.c., con la produzione dell'effetto generale contemplato dall'art. 2945, comma 1, c.c. ". Decorrenza del termine di otto giorni per la denunzia dei vizi occulti al venditore: Nell'ambito della medesima sentenza, con riferimento al termine di decadenza di otto giorni entro il quale il compratore è chiamato a denunciare i vizi al venditore, le Sezioni Unite hanno specificato che esso decorre "... solo dal momento in cui il compratore abbia acquisito la certezza oggettiva dell'esistenza e della consistenza del vizio lamentato, non essendo sufficiente il semplice sospetto... ". Sul piano pratico, tale termine iniziale può individuarsi dal momento in cui il compratore anche all'esito degli accertamenti eseguiti sul bene dal proprio perito, da cui è stato possibile avere piena contezza del vizio medesimo. avv. Pietro Lauretta (tutti i diritti riservati)
IL RECUPERO CREDITI AZIENDALE: L’importanza dei contratti commerciali sotto molteplici profili. Un aspetto ancora oggi sistematicamente sottovalutato dalla maggioranza delle imprese, è la stipula dei contratti nell’ambito dell’attività commerciale (forniture di beni e/o servizi, trasporti, depositi, noleggi etc...). Sebbene essa possa risultare una pratica superflua, specialmente per determinate operazioni poste in essere con i c.d. soggetti “fidati”, si rivela poi una scelta nefasta quando sorgerà l’esigenza di recuperare il credito portato dalla fattura commerciale rimasta impagata. Ebbene, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17989/2016 (sempre attuale sul piano dell’incidenza pratica), hanno stabilito che il luogo di adempimento delle obbligazioni pecuniarie può essere il domicilio del creditore solo ove il credito sia liquido . In concreto, dunque, il creditore di una somma di denaro potrà agire in giudizio avanti il Tribunale del luogo in cui lo stesso ha il proprio domicilio/sede (art. 1182 c.c. 3° comma), solo nel caso in cui la somma sia determinata nel suo ammontare (ad esempio attraverso un contratto), ovvero sia determinabile in base a un semplice calcolo aritmetico (si pensi al caso in cui il contratto indichi il prezzo per unità di prodotto), e non si renda necessario procedere a ulteriori accertamenti e indagini in giudizio sull’effettivo ammontare. Viceversa, nel caso in cui il credito non sia provvisto del requisito della liquidità e venga quindi determinato unilateralmente dal creditore (ad es. attraverso l’emissione di fatture), si applicherà il 4° comma dell’art. 1182 c.c., e quindi l’obbligazione dovrà essere adempiuta presso il domicilio del debitore. Sul punto è, anzitutto, da dire che il principio affermato dalla Cassazione non è, secondo il parere di chi scrive, per nulla condivisibile anche perché tende a tutelare maggiormente la posizione del debitore piuttosto che quella del creditore, il quale (in assenza di contratto) sarà costretto ad anticipare anche i costi ulteriori della trasferta del proprio avvocato presso il foro in cui ha domicilio il debitore. Stante comunque il carattere vincolante di una pronuncia emessa a Sezioni Unite, il consiglio rivolto a tutte le imprese è in ogni caso quello di assumere i necessari accorgimenti predisponendo i contratti commerciali con l’ausilio di un legale di fiducia, o in alternativa adottare una strategia d'impresa vincente. Sottoscrivere nella fase iniziale del rapporto commerciale un contratto, in cui cristallizzare gli importi concordati, modalità e termini di pagamento e ogni altro elemento accessorio, è utile anche per ottenere la provvisoria esecutorietà dell’eventuale decreto ingiuntivo, che consentirà di giungere in breve termine all’esecuzione forzata. Ancora oggi, dunque, sono molteplici i motivi per introdurre una prassi aziendale virtuosa e far così sottoscrivere ai propri clienti un regolare contratto. Il consiglio è sempre quello di adattare il contratto alla fattispecie concreta, evitando di utilizzare i modelli scaricati on.line che spesso complicano la situazione anzichè migliorarla.
Il 18.12.2020 è stato convertito in Legge, con modificazioni, il Decreto Legge n. 130/2020, recanti disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, nonché modiche agli articoli 131-bis. 391-bis. 391-ter e 588 del codice penale, e altre misure di sicurezza correlate. In tema di “sistema di accoglienza”, la Legge n. 173/2020 ha posto fine al disegno salviniano, di fatto già censurato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 186/2020 del 09.07.2020, in seno alla quale è stato dichiarato illegittimo l’art. 4, comma 1-bis, del D.Lgs.vo 18 agosto 2015, n. 142 come introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del D.L. 4 ottobre 2018, n. 113 (c.d. Decreto Sicurezza), convertito, con modificazioni, nella Legge 1° dicembre 2018, n. 132 (c.d. Legge Salvini), nella parte in cui aveva precluso agli stranieri richiedenti asilo l’iscrizione all’anagrafe. La Consulta aveva dichiarato, in via consequenziale, anche l’illegittimità costituzionale delle restanti disposizioni dell’impianto dell’art. 13 del D.L. n. 113 del 2018, poiché in contrasto con l’art. 3 della Costituzione. Le norme dei decreti salviniani, oltre a sfregiare i valori del sistema di accoglienza nazionale e comunitario, negando l’iscrizione all’anagrafe agli immigrati, avevano alimentato un esercito di “fantasmi” senza volto e senza identità, ostacolando di fatto il perseguimento delle finalità di controllo del territorio dichiarate dal decreto sicurezza. I decreti sicurezza di Salvini avevano raggiunto il solo obiettivo di creare insicurezza e più irregolari, da 530mila a 600mila in poco più di un anno, dunque, andavano corretti nelle parti non conformi all’obiettivo, ai principi della Costituzione e ai valori condivisi con la Comunità Europea. Sono numerose le novità apportate dalla riforma in materia di immigrazione e sicurezza, e di seguito si commentano i principali profili in tema di immigrazione. Rimedio all’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari Una delle più importanti novità è la rivalutazione dell’art. 10, comma 3, della Costituzione italiana, dov’è custodito il diritto di asilo dello straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana. Il permesso per motivi umanitari consentiva agli stranieri richiedenti asilo, che non avevano i requisiti richiesti dalla Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato e sul diritto alla protezione internazionale, di ottenere comunque un permesso di soggiorno in presenza di ragioni umanitarie. Il decreto Salvini aveva impedito, di fatto, di compiere una valutazione caso per caso, anche sulla base dei principi internazionali sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. La nuova legge, dunque, ha modificato l’art. 5, comma 6, del D.L.vo n. 286/1998, limitando il potere di rifiuto o revoca del permesso di soggiorno al richiedente, quando ciò sia incompatibile con gli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato Italiano. La nuova norma, inoltre, richiama un principio che era già caposaldo del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ossia il dovere di tenere conto dell’esistenza, nello Stato di origine del richiedente, di gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani. Conversione dei permessi in lavoro subordinato Con il nuovo comma 1 bis dell’art. 6 del D.L.vo 286/1998 viene ampliato l’elenco dei permessi di soggiorno che possono essere convertiti in permesso di lavoro subordinato. Oltre al permesso di soggiorno per motivi di studio, possono essere convertiti in permesso di lavoro anche il permesso di soggiorno per protezione speciale , per calamità, per residenza elettiva, per acquisto della cittadinanza o dello stato di apolide, per attività sportiva, per attività artistica, per motivi religiosi, per assistenza ai minori, e per cure mediche. Iscrizione anagrafica È stata ripristinata l’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente del richiedente protezione internazionale al quale sia stato rilasciato il permesso di soggiorno per richiesta asilo o la ricevuta attestante la presentazione della richiesta di protezione internazionale. Ai richiedenti protezione internazionale che abbiano ottenuto l’iscrizione anagrafica è rilasciata una carta d’identità, di validità triennale, limitata al territorio nazionale (art. 3, comma 2, lett. a). Permesso di soggiorno per protezione speciale È stato modificato il comma 1.1 dell’art. 19 D.L.vo n. 286/1998, e dunque ampliato l’elenco dei divieti di espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, attraverso l’introduzione di nuovi criteri di valutazione discrezionale. Nella nuova norma sono vietate le espulsioni: · degli stranieri che rischiano di essere sottoposti a tortura o trattamento inumano e degradante nel proprio Paese; · quando ricorrono gli obblighi di cui all’art. 5, comma 6, TUI, ossia il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano, tenendo conto anche dell’esistenza nello Stato di appartenenza dello straniero dell’esistenza di violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani ; · in tutti quei casi in cui l’allontanamento dal territorio italiano comporti una violazione del diritto alla vita privata e familiare dello straniero , tenuto conto dell’effettività dei vincoli familiari dell’interessato, dell’effettivo inserimento sociale, della durata del soggiorno in Italia, e dell’esistenza di legami familiari, sociali e culturali col proprio paese di origine. Quando la Commissione Territoriale rigetta una domanda di asilo o protezione internazionale, se sussiste uno dei divieti di respingimento suddetti, deve trasmettere gli atti al Questore affinchè rilasci il permesso di soggiorno per protezione speciale. Inoltre, viene modificato anche il comma 2 dell’art. 19 T.U. immigrazione, in cui era previsto il divieto di allontanare gli “ stranieri che versano in condizioni di salute di particolare gravità, accertate mediante idonea documentazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato col Servizio Sanitario Nazionale ” e nel caso in cui il rientro nel paese di origine avrebbe comportato un “rilevante pregiudizio” per la propria salute. La nuova norma elimina il riferimento alla particolare gravità, estendendo il divieto di espulsione anche a coloro che si trovano in gravi condizioni di salute, fisiche o psichiche dovute anche a una patologia preesistente, introducendo la definizione di “ gravi condizioni psico-fisiche o derivanti da gravi patologie ”. Permesso di soggiorno per calamità di cui all’art. 20 bis del D.L.vo n. 286/1998 La Legge Lamorgese ha modificato anche l’art. 20 bis del T.U., relativo al permesso di soggiorno per calamità, fino a ora concesso nei casi in cui lo straniero avrebbe dovuto fare rientro in uno Stato che si trova “ in una situazione di contingente ed eccezionale calamità che non consente il rientro e la permanenza in condizioni di sicurezza ”. Vengono ampliati i casi di concessione di tale titolo di soggiorno, attraverso la sostituzione delle parole “contingente ed eccezionale” con la frase “ grave situazione di calamità ”, da valutare caso per caso. Inoltre, non appare più necessario subordinare la proroga del permesso alla rivalutazione della gravità della situazione già compiuta in sede di prima concessione del permesso. Infine, mentre il permesso per ragioni di calamità non era convertibile in permesso per motivi di lavoro, il Decreto legge in esame consente la conversione per motivi di lavoro, concedendo ai migranti ambientali di stabilizzarsi nel territorio nazionale dopo che abbiano trovato occupazione lavorativa. Cittadinanza Il termine per la conclusione dei procedimenti di riconoscimento della cittadinanza per matrimonio e per naturalizzazione di cui all’art. 9 ter della Legge n. 91/1992 è ridotto da 48 a 24 mesi, prorogabili al massimo fino a 36 mesi. Tale termine trova applicazione per le domande di cittadinanza presentate a partire dalla data del 21.12.2020.
Con la sentenza n. 186/2020 del 09.07.2020 -pubblicata in G.U. il 31.07.2020- la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 4, comma 1-bis, del D.Lgs.vo 18 agosto 2015, n. 142 come introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del D.L. 4 ottobre 2018, n. 113 (c.d. Decreto Sicurezza), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132 (c.d. Legge Salvini), nella parte in cui preclude agli stranieri richiedenti asilo l’iscrizione all’anagrafe. La Consulta ha dichiarato, in via consequenziale, anche l’illegittimità costituzionale delle restanti disposizioni dell’impianto dell’art. 13 del D.L. n. 113 del 2018, poiché in contrasto con l’art. 3 della Costituzione . Il rimettente Tribunale di Milano, in particolare, ha chiesto alla Consulta di accertare il carattere discriminatorio del diniego all’iscrizione anagrafica per violazione del principio di parità di trattamento tra cittadini italiani e stranieri ai sensi dell’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998 e dell’art. 15 del d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), nonché per violazione del «principio paritario, sotto il profilo della nazionalità» (ai sensi dell’art. 3 Cost., dell’art. 14 CEDU e dell’art. 43 del d.lgs. n. 286 del 1998). Secondo l’autorevole pronuncia in commento, negare l’iscrizione anagrafica agli stranieri richiedenti asilo vuol dire porre in essere un trattamento differenziato, e indubbiamente peggiorativo, a una particolare categoria di stranieri in assenza di una ragionevole giustificazione: “se infatti la registrazione anagrafica è semplicemente la conseguenza del fatto oggettivo della legittima dimora abituale in un determinato luogo, la circostanza che si tratti di un cittadino o di uno straniero, o di uno straniero richiedente asilo, comunque regolarmente insediato, non può presentare alcun rilievo ai suoi fini”. Non può essere tollerata nello Stato italiano un'irragionevole disparità di trattamento tra stranieri richiedenti asilo e altre categorie di stranieri legalmente soggiornanti nel territorio statale, oltre che con i cittadini italiani. La Corte Costituzionale, sul punto, aveva già avuto modo di superare l’apparente ostacolo interposto dal dato letterale dell’art. 3 Cost. (che fa riferimento ai soli «cittadini»), affermando che, “ se è vero che l’art. 3 si riferisce espressamente ai soli cittadini, è anche certo che il principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando trattisi di rispettare i diritti fondamentali" (cfr. sentenza n. 120 del 1967), e "al legislatore non è consentito introdurre regimi differenziati circa il trattamento da riservare ai singoli consociati se non in presenza di una “causa” normativa non palesemente irrazionale o, peggio, arbitraria ” (cfr. Corte Cost., sentenza n. 432/2005). È corretto, dunque, ritenere che il diritto all’iscrizione anagrafica ricade tra i diritti fondamentali , in quanto rappresenta «presupposto dell’identificazione di se stessi anche e soprattutto mediante lo sviluppo di un senso di appartenenza con la comunità locale presso cui si decide di fissare la propria stabile dimora». A questi fini, la maturazione del senso di appartenenza sarebbe prodromica rispetto all’inserimento dell’individuo nella società, al cui interno potrà svolgersi la sua personalità (come sancito dall’art. 2 Cost.). Nella prospettiva da ultimo indicata, l’iscrizione anagrafica costituisce senza dubbio una tappa essenziale nel processo di integrazione dell'individuo nella comunità sociale in cui lo stesso ha scelto di inserirsi . Correttamente, infatti, il Tribunale di Milano aveva al riguardo preso in considerazione il principio della “ centralità della persona ”, come nota caratterizzante dell’art. 2 della Costituzione, il quale « non fa riferimento all’individuo in quanto partecipe di una determinata comunità politica, ma in quanto essere umano ». Il Tribunale di Milano aveva sottolineato altresì “ (che) la dignità umana e, quindi, i diritti necessari alla sua garanzia non spettino solo ai cittadini trova inconfutabile conferma nei principi di eguaglianza e di parità sociale contenuti nel successivo art. 3 Cost. ” (cfr. Corte Cost., sentt. n. 62/1994, n. 490/1988, n. 54/1979, n. 244 e n. 177 del 1974, n. 144/1970, n. 104/1969, n. 11/1968 e n. 120/1967). A seguito della dichiarata incostituzionalità, dunque, si ristabilisce la piena uguaglianza di diritti e parità di trattamento . I richiedenti asilo potranno iscriversi nelle liste anagrafiche e così ottenere la carta d'identità, senza più bisogno di usare, come documento di riconoscimento, il permesso di soggiorno. Essi avranno libero accesso ai servizi erogati da tutte le strutture pubbliche nel luogo dove avranno stabilito la loro residenza.
Con la sentenza n. 123 del 2020 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità, in riferimento agli artt. 3, comma 1 e 4, comma 1, 24, comma 1, 35, comma 1, e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 55-quater, comma 1, lett. a), del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, nella parte in cui stabilisce che, in caso di falsa attestazione della presenza in servizio del pubblico dipendente, mediante alterazione dei sistemi di rilevamento o con altre modalità fraudolente (c.d. furbetti del cartellino), la sanzione disciplinare del licenziamento si applichi “comunque”, poiché – in base al diritto vivente – l’uso di tale avverbio lascia fermo il sindacato giurisdizionale sulla concreta proporzionalità del licenziamento, sebbene all’esito dell’inversione dell’onere probatorio in capo al lavoratore dipendente. Ad avviso del Tribunale di Vibo Valentia, che ha rimesso la questione di legittimità innanzi alla Corte Costituzionale, il tenore letterale dell' art. 55- quater del D.Lgs.vo n. 165 del 2001 , con l’uso dell’avverbio “comunque”, avrebbe imposto l'automatismo sanzionatorio del licenziamento disciplinare in spregio ai principi costituzionali di ragionevolezza ed effettività della tutela del lavoro, nonchè del diritto di difesa. Tali principi, infatti, attribuiscono al dipendente, autore del fatto tipizzato dal legislatore, l'onere di provare l a sussistenza di elementi fattuali di carattere attenuante o esimente, idonei a superare la presunzione legale di gravità dell’illecito (Cass. Civ. sez. lav., sent. 11 luglio 2019, n. 18699, Cass. Civ. sez. lav., sent. 11 settembre 2018, n. 22075, Cass. Civ. sez. lav., sent. 19 settembre 2016, n. 18326, e Cass. Civ. sez. lav., sent. 24 agosto 2016, n. 17304). La Consulta, dunque, ha ribadito che fermo restando la titolarità del recesso in capo alla Pubblica Amministrazione nelle fattispecie delineate e tipizzate dal legislatore, è permesso al dipendente autore materiale del fatto e, conseguentemente, al Giudice del Lavoro investito dell'impugnazione del licenziamento, il potere di sindacare la concreta proporzionalità del licenziamento, ai sensi dell'art. 2106 c.c.-. Sul punto, dunque, si esclude qualsiasi presunzione di legittimità dell'automatismo espulsivo posto in essere dalla parte datoriale nei confronti del destinatario.
Pietro Lauretta
Via Cavour, 388/a
Vittoria (RG)
Il portale giuridico al servizio del cittadino ed in linea con il codice deontologico forense.
© Copyright IUSTLAB - Tutti i diritti riservati
Privacy e cookie policy