Mi chiamo Vincenzo de Crescenzo, lavoro come avvocato da oltre dieci anni e mi sono sempre occupato di diritto civile (obbligazioni e contratti, proprietà, famiglia e sucessioni), commerciale, lavoro e previdenza, conseguendo anche vari titoli accademici di specializzazione nel settore. I miei clienti sono sia privati che aziende. Professionalità e trasparenza sono i valori su cui baso un rapporto strettamente fiduciario con i miei assistiti, ricercando sempre soluzioni che garantiscano il miglior risultato, tempi rapidi ed un prezzo equo. Posso assicurare ampia tutela su tutto il territorio nazionale, anche in videochiamata.
Ho frequentato un corso di formazione e specializzazione in mediazione civile e commerciale e, in seguito, ho svolto l'attività di mediatore presso l'Organismo di mediazione della Camera di Commerxio di Pescara. Risplvere una controversia trovando un accordo tra le parti richiede particolare abilità e competenza, ma può essere molto conveniente, considerando l'incerto esito di un eventale giudizio.
Mi sono sempre occupato di diritto civile, sin dagli anni della formazione e collaborazione presso altri studi legali, trattando pratiche relative al recupero crediti, esecuzioni mobiliari ed immobiliari, sinistri stradali, locazioni, sfratti, proprietà, condominio, e molti altri casi tipici. Il diritto civile e privato, in genere, rappresenta, quindi, il settore in cui ho maggiormente lavorato, maturando una particolare conoscenza ed attitudine.
Nel 2010 ho conseguito la Specializzazione Universitaria in “Discipline del lavoro, sindacali e della sicurezza sociale” e da vari anni collaboro con alcune organizazioni sindacali. Mi occupo di impiego pubblico e privato, procedimenti disciplinari, licenziamenti, demansionamento e/o mobbing, differenze retributive, trasferimenti e/o mobilità, malattie e infortuni, contratti di appalto e concorsi pubblici.
Diritto di famiglia, Diritto commerciale e societario, Separazione, Divorzio, Matrimonio, Recupero crediti, Pignoramento, Contratti, Mobbing, Sicurezza ed infortuni sul lavoro, Licenziamento, Locazioni, Sfratto, Fallimento e proc. concorsuali, Previdenza, Malasanità e responsabilità medica, Eredità e successioni, Diritto immobiliare, Edilizia ed urbanistica, Diritto condominiale, Incidenti stradali, Arbitrato, Negoziazione assistita, Incapacità giuridica, Domiciliazioni, Risarcimento danni.
Master Universitario di specializzazione sul diritto del lavoro e della previdenza, di durata annuale, con frequenza obbligatoria e prova conclusiva scritta e orale.
STRUMENTI GIURIDICI A TUTELA DELLE CONDIZIONI DI SEPARAZIONE O DIVORZIO E AFFIDAMENTO DEI FIGLI Contro la violazione, da parte del proprio coniuge o ex coniuge, delle condizioni stabilite per la separazione personale o il divorzio (cessazione degli effeti civili o scioglimento del matrimonio) , comprese quelle sull’affidamento e mantenimento dei figli, il nostro ordinamento giuridico prevede varie forme di tutela, in sede civile e penale. Le condizioni stabilite in sede giudiziale, quindi, da un provvedimento del giudice (sentenza o decreto di omologa), in seguito alla presentazione di un ricorso in Tribunale, per la separazione o il divorzio o la modifica delle condizioni ivi stabilite, così come anche l’accordo mediante la negoziazione assistita, costituiscono titolo esecutivo , pertanto, in caso di inadempienza, consentono di agire immediatamente in via esecutiva, senza dover ottenere un’ulteriore pronuncia giurisdizionale, o, comunque, di ricorrere a procedimenti particolarmente snelli e rapidi, al fine di ottenere il rispetto delle prescrizioni ivi contenute. In particolare, quando l’obbligo di corrispondere un assegno di mantenimento nei confronti dell’altro coniuge o ex coniuge, è stabilito da un provvedimento giudiziale, qualora l’obbligato non provveda (anche in seguito a formale lettera di diffida e messa in mora), è possibile, in virtù del suddetto titolo esecutivo, notificargli il cosiddetto atto di precetto ed avviare, così, l’esecuzione forzata per il recupero coattivo delle somme arretrate non corrisposte. Trascorsi, infatti, inutilmente, dieci giorni dalla notificazione dell’atto di precetto, è possibile procedere con il pignoramento mobiliare e immobiliare dei beni del debitore. Il pignoramento può riguardare, ad esempio, l’autovettura o un’abitazione, ma, soprattutto, lo stipendio del coniuge o ex coniuge, mediante il pignoramento presso terzi. Si noti, in merito, come, per un recente orientamento giurisprudenziale (Cass. 11316/2011), lo stesso procedimento, previa notifica dell’atto di precetto, sia possibile, in alternativa al ricorso per decreto ingiuntivo, anche per il recupero di quelle spese straordinarie per i figli considerate, comunque, prevedibili, in quanto routinarie (come le spese mediche e scolastiche), rispondendo ad ordinarie e prevedibili esigenze di mantenimento del figlio, a tal punto dall’avere la certezza del loro verificarsi, pur non essendo ricomprese nell’assegno forfettizzato di mantenimento. Inoltre, ai sensi dell'art. 156, comma 5 e 6 del codice civile, il provvedimento di separazione costituisce titolo idoneo pr l’iscrizione di ipoteca giudiziale e consente di chiedere il sequestro ma, soprattutto, l'ordine di pagamento diretto nei confronti del terzo debitore dell'obbligato, come, ad esempio, il datore di lavoro. E’ possibile, cioè, chiedere al giudice, in caso di reiterato inadempimento del coniuge obbligato, di ordinare al suo datore di lavoro di versare direttamente in proprio favore la somma corrispondente all’assegno di mantenimento stabilito, sottraendola dall’importo mensile dello stipendio corrisposto. Lo stesso è previsto, ex art. 8 comma 2, l. n. 898/1970, anche per il provvedimento di divorzio, che consente, addirittura, di chiedere il versamento diretto dell’assegno di mantenimento in via stragiudiziale, rivolgendosi, in caso di inadempimento dell’ex coniuge, anziché al giudice, direttamente al suo creditore o datore di lavoro. Il provvedimento giudiziale costituisce, inoltre, titolo necessario, anche, per presentare ricorso, ai sensi dell’art. 709 ter del codice di procedura civile , per la soluzione di ogni controversia insorta tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità dell’affidamento. Il Tribunale , in tal caso, accertati gravi inadempienze o atti pregiudizievoli per il minore o contrari alle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore, oltre che ammonire, sanzionare o condannare al risarimento danni il genitore inadempiente. Quando, invece, le condizioni di separazione o divorzio, soprattutto per una questione di economicità, sono stabilite in via stragiudiziale dalle parti, quindi, mediante la sottoscrizione di una scrittura privata, come può accadere, in particolare, per la modifica delle condizioni economiche già stabilite giudizialmente, l’atto sottoscritto, pur essendo ritenuto valido, purchè non leda diritti ed interessi dei minori, non costituisce titolo esecutivo e non consente di accedere alle forme di tutela giuridica sin qui esaminate. In particolare, se il coniuge o ex coniuge obbligato non provvede al mantenimento, il recupero delle somme, così, evetualmente, concordate, richiede un’attività più complessa e dispendiosa, essendo necessario conseguire, tramite un giudizio civile, il titolo esecutivo mancante, ossia il provvedimento giudiziale, in virtù del quale, poi, sarà possibile procedere con l’esecuzione forzata. È possibile e necessario, in tal caso, presentare in Tribunale un ricorso per decreto ingiuntivo, chiedendo al Giudice di ordinare il pagamento in proprio favore delle somme inevase riportate nell’accordo stragiudiziale. In seguito, ottenuto il decreto, anche se provvisoriamente esecutivo, sarà possibile notificare al debitore l’atto di precetto ed eventualmente quello di pignoramento. Tuttavia, l’eventualità e gli effetti di un accordo stragiudiziale tra le parti, riguarda, soprattutto, la separazione di una coppia di fatto, convivente more uxorio . A riguardo, occorre precisare, infatti, che, a differenza di quanto avviene per i coniugi, la separazione tra una coppia di fatto non necessita di alcun provvedimento. Inoltre, l’ex convivente non ha un obbligo di mantenimento verso l’altro (salvo quello degli alimenti, qualora questi versi in stato di bisogno, ma solo in caso di convivenza regolarizzata), tuttavia, in presenza di figli minori, è tenuto, in ogni caso, a contribuire al loro mantenimento ed occorre, come per i genitori sposati, regolamentarne l’affido, condiviso o meno, e tutto ciò che ne concerne. È possibile, quindi, anche stabilire, semplicemente, tra le parti, accordi verbali o, meglio, scritti. Una scrittura privata, infatti, in quanto prova delle obbligazioni reciprocamente assunte, consente, comunque, una certa tutela, in caso di inadempimento, ma non abbastanza e, comunque, come abbiamo già vsto per i coniugi, non quanto il titolo esecutivo costituito dal provvedimento giudiziale. Anche in questo caso, quindi, contro il mancato versamento dell’assegno di mantenimento concordato, in mancanza di un provvedimento giudiziale, è possibile prsentare in Tribunale un ricorso per decreto ingiuntivo, al fine di ottenere il necessario titolo esecutivo per l’esecuzione forzata. Tuttavia, anche gli ex conviventi di fatto, in alternativa ad un accordo verbale o per scrittura privata, possono, mediante apposito ricorso in Tribunale, stabilire giudizialmente la regolamentazione del regime di affidamento, mantenimento e frequentazione dei propri figli minori, disponendo così di quel provvedimento giudiziale, con valore di titolo esecutivo, necessario per accedere anch’essi a tutte le forme di tutela giuridica sin qui esaminate per gli ex coniugi. Il ricorso può essere presentato da entrambi i genitori, anche congiuntamente se sono d'accordo sulle condizioni da applicare ( ex art . 316 e 316 bis c.c .). In tal caso, è possibile anche un accordo in negoziazione assistita con i rispettivi avvocati, del tutto equiparato al provvedimento giudiziale. In ambito penale, per tutelarsi contro il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento, innanzitutto, è possibile far riferimento all’art 570, comma 2, c.p., rubricato “violazione degli obblighi di assistenza familiare”, che punisce la mancata somministrazione dei mezzi di sussistenza a discendenti minorenni o inabili al lavoro, oltre che al coniuge e agli ascendenti. In caso di separazione, quindi, il reato si configura solo a carico dei genitori, anche se non coniugati, e solo in caso di un grave inadempimento, tale da aver generato nel minore uno stato di bisogno, privandolo dei necessari mezzi di sussistenza, indispensabili per vivere ( come il vitto, l’abitazione, il vestiario, i medicinali i canoni per le utenze indispensabili e le spese per l’istruzione ). Una maggiore tutela è, invece, garantita dal successivo art. 570 bis c.p. , rubricato “violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio” (introdotto dal Decreto Legislativo 1 marzo 2018 n. 21 e in vigore dal 6 aprile 2018), che ha esteso le pene previste dall’articolo 570 – reclusione fino a 12 mesi o la multa da 103 a 1.032 euro – al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero viola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli. Quest’ultimo periodo implica che il genitore obbligato sia responsabile anche in caso di omesso rimborso delle spese straordinarie. Quindi, diversamente dall’art. 570, comma 2, c.p. , che tutela solo il coniuge non separato ed i figli (anche nati al di fuori del matrimonio), l’art. 570 bis c.p. sanziona anche l’omesso versamento dell’assegno di mantenimento nei confronti del coniuge separato, oltre che dei figli, per giurisprudenza prevalente in materia, anche nati da genitori non sposati, ma non tra i semplici conviventi more uxorio . Prescinde, inoltre, dall’accertamento dello stato di bisogno ed il reato si configura, semplicemente, con l’omesso versamento, anche solo parzialmente, dell’assegno stabilito dal Giudice, senza alcun accertamento in ordine allo stato di bisogno, richiesto, invece, dall’art. 570, comma 2, c.p.. Entrambe le norme sono poste a tutela delle esigenze economiche ed assistenziali dei familiari, in caso di inadempimento del soggetto giuridicamente obbligato. Tuttavia, mentre l’art. 570, comma 2 c.p. tutela il più ampio diritto a ricevere, in caso di bisogno, i necessari mezzi di sussistenza dai propri familiari, pertanto, il reato si configura anche in mancanza di un provvedimento giudiziale di separazione, poichè l’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli grava sui genitori anche in caso di separazione di fatto. L’art. 570 bis c.p. , invece, sanziona l’inadempimento dell’obbligo di natura economica stablito dal provvedimento giudiziale, in caso di separazione, divorzio o regolamentazione dell’affido e mantenimento dei figli nati al di fuori del matrimonio, da cui non si può prescindere e senza il quale la norma non consente alcuna tutela. In entrambi i casi, l’obbligato è, comunque, esente da ogni responsabilità, qualora non possa adempiere per comprovate difficoltà economiche per ragioni al medesimo non imputabili. Le norme appena esaminate sanzionano penalmente la violazione degli obblighi di natura economica, a carico dei coniugi o dei genitori, come il mancato versamento dell’assegno di mantenimento, ma non riguardano i rapporti personali del provvedimento emesso in sede di separazione, tutelati, invece, dall’art. 388, comma 2, c.p ., che sanziona quei comportamenti contrari agli interessi relativi alla educazione, alla cura ed alla custodia del minore, punendo, con la reclusione fino a tre anni o la multa da euro 103 a euro 1.032, chi elude l'esecuzione di un provvedimento del giudice civile che concerna l'affidamento di minori o di altre persone incapaci. Tra i comportamenti più ricorrenti che integrano il presente reato, ricordiamo quello consistente nel rifiuto alla consegna del figlio da parte del genitore affidatario, impedendo all’altro di vederlo e tenerlo con sé o, semplicemente, non favorendo i suoi rapporti con il minore e l’esercizio del suo diritto di visita, secondo le modalità stabilite dal giudice, salvo motivi particolarmente gravi. In conclusione : in caso di violazione delle condizioni di separazione o divorzio e affidamento dei minori, stabilite con provvedimento giudiziale, sarà possibile, procedere contro il coniuge, ex coniuge o, comunque, contro l’altro genitore inadempiente, secondo le circostanze, mediante: 1. pignoramento immediato dei suoi beni e, in particolare, dello stipendio, per il recupero degli arretrati dell’assegno di mantenimento (per recente giurisprudenza, anche di quelle spese straordinarie routinarie, certe e prevedibili, destinate ai bisogni ordinari del figlio); 2. iscrizione di ipoteca giudiziale e richiesta di versamento diretto dell’assegno di mantenimento da parte del suo datore di lavoro, ex art. 156, comma 5 e 6, c.c. e art. 8, comma 2, l. n. 898/1970 ; 3. ricorso per decreto ingiuntivo, per il recupero delle spese straordinarie stricto sensu , imprevedibili, imponderabili ed economicamente rilevanti; 4. ricorso ex art. 709 ter c.p.c., per la modifica dei provvedimenti in vigore, la condanna alle previste sanzioni e risarcimento danni, in caso di violazione delle condizioni sia economiche che personali; 5. querela per violazione degli obblighi di assistenza familiare, ex art. 570, comma 2, e 570 bis c.p. o delle modalità di affidamento di minori stabilite dal giudice, ex art. 388, comma 2, c.p.. In mancanza di un provvedimento giudiziale, sarà, comunque, possibile chiedere, mediante ricorso per decreto ingiuntivo, il rimborso degli arretrati dell’assegno di mantenimento concordato, per se o per i minori, nonché sporgere querela per violazione degli obblighi di assistenza familiare, ex art. 570, comma 2, qualora si facciano mancare i necessari mezzi di sussistenza. San Salvo, 24 novembre 2022 Avv.Vincenzo de Crescenzo
In ottemperanza a quanto disposto dal Decreto Legge del 21 settembre 2021 n. 127, che ha introdotto l’obbligo di Green Pass nei luoghi di lavoro, a decorrere dal 15 ottobre 2021 e fino al termine dello stato di emergenza, al fine di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori nel luogo di lavoro, prevenendo la diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2, tutti i soggetti che svolgono, a qualsiasi titolo, un’attività lavorativa nel settore privato, anche se prestano la propria attività sulla base di contratti esterni, devono munirsi di Green Pass (la certificazione verde), con l’obbligo di esibirlo a semplice richiesta da parte del proprio datore di lavoro o del datore di lavoro nei cui confronti l’attività viene resa, che ha l’obbligo di accertarsi che le disposizioni sul Green Pass vengano effettivamente rispettate nei propri luoghi di lavoro. Per ottenere il Green Pass, con la possibilità, quindi, di accedere ai luoghi di lavoro, occorre provare di essersi vaccinati contro il SARS-COV2 o di essere guariti dall’infezione o di aver effettuato un test molecolare o antigenico rapido con risultato negativo al virus. L’obbligo di certificazione verde viene meno solo e quando il lavoratore è in possesso di apposita certificazione di esenzione alla vaccinazione anti SARS-COV-2, rilasciata in presenza di specifiche e documentate condizioni cliniche, per cui la vaccinazione risulti controindicata, anche solo temporaneamente. In conseguenza dell’obbligo di Green Pass nei luoghi di lavoro, il datore di lavoro ha, innanzitutto, il dovere, inderogabile, di predisporre, anche se con una certa libertà d’azione, le necessarie misure tecniche ed organizzative per effettuare i relativi controlli, delegando formalmente gli incaricati ai controlli stessi, possibilmente prima dell’ingresso nel luogo di lavoro, anche a campione, purché effettuati ogni giorno su almeno il 20% dei dipendenti. In merito, invece, al trattamento sanzionatorio, i lavoratori nel settore privato, nel caso in cui comunicassero di non essere in possesso della certificazione verde COVID-19 o risultassero privi della predetta certificazione al momento dell’accesso al luogo di lavoro, sarebbero considerati assenti ingiustificati fino alla presentazione della predetta certificazione. Non avrebbero conseguenze disciplinari, né sarebbero soggetti a sospensione e, soprattutto, avrebbero, comunque, diritto alla conservazione del rapporto di lavoro, ma senza retribuzione né altro compenso. I lavoratori in aziende con meno di 15 dipendenti, dopo il quinto giorno di assenza ingiustificata, in quanto sprovvisti di Green Pass, sarebbero sospesi e il datore di lavoro potrebbe sostituirli per tutta la durata del contratto di sostituzione che, tuttavia, non può essere superiore a 10 giorni, rinnovabili per una sola volta. In ogni caso, i lavoratori che, in elusione dei controlli, fossero trovati privi di Green Pass, sarebbero passibili di sanzione da 600 a 1.500 euro. I datori di lavoro, invece, qualora le autorità preposte riscontrassero nei luoghi di lavoro la presenza di lavoratori sprovvisti di Green Pass, rischierebbero una sanzione da 400 a 1000 euro, salvo dimostrare di aver effettuato i controlli, comunque, nel rispetto di adeguati modelli organizzativi come previsto dal decreto legge 127/2021. In ogni caso, si tratta di sanzioni amministrative di competenza del Prefetto, a cui il Decreto Green Pass affida il compito di accertare le violazioni di cui ha ricevuto comunicazione da parte del datore di lavoro o del suo delegato, tenuti a redigere una sorta di verbale di constatazione dell’illecito rilevato, con tutte le informazioni necessarie per consentire l’applicazione delle previste sanzioni. Il Prefetto, dunque, è l’autorità incaricata di contestare, mediante notifica, l’illecito rilevato dall’accertamento ad opera del datore di lavoro o del suo delegato, con irrogazione delle relative sanzioni. Il datore di Lavoro è, invece, responsabile della predisposizione e attuazione della procedura e della formale designazione dell’incaricato al controllo che, in quanto responsabile dell’attività di controllo, rilevata la violazione, deve comunicare al datore di lavoro l’inadempienza senza copiare, registrare o conservare alcun dato relativo al soggetto verificato, se non i soli dati anagrafici identificativi ai fini della trasmissione del verbale al Prefetto. Riguardo la privacy, infatti, il Garante ha opportunamente specificato che, sia in caso di controllo manuale (per mezzo di incaricato) che in caso di apparecchiatura elettronica (specifiche applicazioni), “l’attività di verifica non dovrà comportare la raccolta di dati dell’interessato in qualunque forma, ad eccezione di quelli strettamente necessari, in ambito lavorativo, all’applicazione delle misure derivanti dal mancato possesso della certificazione. Il sistema utilizzato per la verifica del green pass non dovrà conservare il QR code delle certificazioni verdi sottoposte a verifica, né estrarre, consultare registrare o comunque trattare per altre finalità le informazioni rilevate”. San Salvo, 8 novembre 2021. Avv. Vincenzo de Crescenzo
Master universitario di II livello sul diritto marittimo, con durata annuale, frequenza obbligatoria, verifiche e prova conclusiva scritta e orale.
ASSEGNAZIONE TEMPORANEA DEI DIPENDENTI PUBBLICI GENITORI DI UN BAMBINO FINO A TRE ANNI L’art. 42 bis della legge 26 marzo 2001 n. 151 (recante il Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità), perseguendo l’esigenza di tutelare l’istituto della famiglia, nonché la tutela del fanciullo, alla stregua dei principi costituzionali e comunitari in materia, disciplina, in generale, il “riavvicinamento familiare” e cioè l’assegnazione temporanea (per un periodo non superiore a tre anni) dei lavoratori dipendenti dalle Amministrazioni Pubbliche ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l’altro genitore esercita la propria attività lavorativa. Prevede, quindi, per i dipendenti pubblici, genitori di un bambino fino a tre anni, una particolare ed ulteriore forma di mobilità, volta a ricongiungere i genitori del bambino, favorendo concretamente la loro presenza durante i primi anni di vita del proprio figlio, che rappresentano la fase più delicata per la sua formazione. Vuole così predisporre una tutela forte a presidio di valori fondamentali e costituzionalmente garantiti inerenti la famiglia (art. 29, 30, 31 e 37 Cost.), ed in particolare la cura dei figli minori nei primi anni di vita. L’applicazione del beneficio presuppone, inoltre, sotto il profilo oggettivo, la vacanza e la disponibilità di posti di corrispondente posizione retributiva, nonché l’assenso delle amministrazioni di provenienza e di destinazione, allo scopo di contemperare i diritti su indicati, appartenenti al singolo, con le esigenze di buon andamento ed organizzazione della Pubblica Amministrazione, evitando, così, che i servizi e la funzionalità degli uffici possano risultare compromessi dalle richieste del dipendente, seppur legittime. La ratio della norma di cui all’art. 42-bis è, quindi, quella di intervenire in favore della famiglia e del fanciullo con un provvedimento di temporanea assegnazione del dipendente ad altra sede, salvaguardando, peraltro, contestualmente, le esigenze organizzative e funzionali dell’amministrazione pubblica, chiamata a verificare, in concreto, che la concessione del beneficio non rechi pregiudizio per la stessa, attraverso una valutazione comparativa delle situazioni organizzative sia della sede di servizio del dipendente che di quella richiesta con l’istanza di assegnazione. Tuttavia, considerati i valori fondamentali e costituzionalmente garantiti della famiglia e del fanciullo, il necessario assenso da parte delle amministrazioni di provenienza e di destinazione, non costituisce un mero potere discrezionale, svincolato dal controllo giurisdizionale e da qualsiasi sindacato, ma una facoltà che non può essere esercitata decidendo in modo arbitrario e strumentale a danno dei suddetti diritti costituzionali. Infatti, a tutela della posizione del dipendente contro provvedimenti, appunto, arbitrari e strumentali, la norma in questione prevede, espressamente, l’obbligo dell’Amministrazione di motivare adeguatamente l’eventuale diniego, in modo tale che, potendo valutare la congruenza e la consistenza delle ragioni addotte, il dipendente possa verificare e, eventualmente, contestare in sede giurisdizionale, la correttezza e la legittimità del provvedimento. Tale obbligo di motivazione consente il necessario equilibrio tra interesse e diritti (costituzionalmente garantiti) del richiedente da un lato e arbitraria discrezione amministrativa dall’altro. In sintonia con quanto precede, sia la giurisprudenza che la dottrina di riferimento hanno ormai chiarito che, qualora sussistano i requisiti oggettivi citati dalla legge, le amministrazioni coinvolte hanno l’obbligo di dare il proprio assenso all’istanza di assegnazione del dipendente (Tribunale Reggio Emilia, 09 novembre 2005: “La disciplina dell’art. 42 bis D. Lgs. n. 151/2001(…), in presenza degli specifici requisiti, configura un diritto soggettivo in capo allo stesso lavoratore richiedente e non una mera facoltà in capo all’amministrazione di concedere discrezionalmente il trasferimento di sede, alla luce del principio di completezza dell’ordinamento giuridico che non ammette vuoti normativi ne’ norme inutili o ridondanti. (…): la carenza di una congrua motivazione nel diniego al trasferimento temporaneo, consente quindi al giudice di disapplicare gli atti amministrativi posti in essere dall’amministrazione di destinazione, oltre che di ordinare l’invocata temporanea assegnazione”). Inoltre, è indiscusso l’obbligo dell’Amministrazione di accogliere, comunque, la richiesta di assegnazione provvisoria, salvo il caso concreto dell’effettivo ed immediato disagio per l’ufficio interessato, che deve essere riportato nella motivazione, indicando esattamente gli specifici ed oggettivi, nonché prevalenti, impedimenti alla richiesta di assegnazione (Trib. Novara, 29 giugno 2009: “(…) la norma impome all’amministrazione non solo di comunicare il proprio dissenso, ma anche, nell’utilizzo del suo potere discrezionale nell’esame della domanda del richiedente, di analizzare con particolare attenzione la situazione dell’ufficio di provenienza, dandone specificatamente conto nella motivazione, al fine di consentire la valutazione se ed in che termini l’accoglimento della domanda porterebbe all’ufficio di appartenenza un concreto, effettivo e irrimediabile disagio, tale da indurre a ritenere che esigenze di servizio debbano prevalere sulla tutela della maternità, costituzionalmente sancita, e dell’unità familiare, previste dalla norma di cui è invocata l’applicazione”). Considerata, infatti, la natura costituzionale dei valori fondamentali della famiglia e del fanciullo tutelati dal citato art. 42 bis, il diniego dell’istanza deve, necessariamente, ritenersi illegittimo in mancanza di un effettivo e irrimediabile disagio per l’amministrazione. Inoltre, deve sempre essere adeguatamente motivato e dimostrato in modo preciso e concreto, affinchè possa valutarsi l’esistenza di un concreto ed effettivo disagio per l’amministrazione, a causa dell’accoglimento della domanda, tale da indurre a ritenere che esigenze di servizio debbano prevalere sulla tutela dei diritti costituzionalmente garantiti della famiglia e del fanciullo. Anche la Suprema Corte ha confermato che il diniego da parte dell’Amministrazione può essere giustificato solo quando il distaccamento di un dipendente comporta una lesione consistente delle proprie esigenze economiche, produttive ed organizzative, tale che, nel contemperamento degli interessi in gioco, la tutela dell’integrità dei figli e della famiglia non risulti prioritaria e prevalente rispetto al contributo lavorativo fornito dal dipendente (Cass. Sez. Un.. sent. n. 16102 del 9.07.2009). Avv. Vincenzo de Crescenzo
RISARCIMENTO DANNI PER EFFETTI INDESIDERATI DELLA VACCINAZIONE ANTI COVID La campagna di vaccinazione anti Covid in atto pone un problema, inevitabilmente, connesso a qualsiasi altra vaccinazione, ma ancor più sentito e rilevante a causa della brevissima sperimentazione effettuata, ovvero, quello degli eventuali effetti indesiderati conseguenti alla somministrazione del vaccino ed il relativo risarcimento danni. La disciplina giuridica è, in ogni caso, la stessa, anche per la vaccinazione anti Covid. Ai fini del risarcimento, occorre distinguere, innanzitutto, gli effetti indesiderati (danni) di lieve entità e del tutto temporanei, da quelli, invece, gravi e permanenti. 1.1. Danni gravi e permanenti. Trattando, principakmente, di questi ultimi, essi sono soggetti ad un indennizzo da parte dello Stato, qualora siano non prevedibili e, quindi, non evitabili , oppure ad un risarcimento vero e proprio nel caso, invece, siano prevedibili ed evitabili. 1.2. Danni non prevedibili e, quindi, non evitabili. La Legge n. 210/1992 titolata “ Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati ”, riconosce al paziente il diritto ad un indennizzo nel caso di danno permanente da vaccinazione, esteso, a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale n. 107/2012, anche ai vaccini non obbligatori ma “consigliati” dalle autorità sanitarie. L’indennizzo consiste in un assegno reversibile per quindici anni, ma, nel caso in cui dal vaccino sia derivata la morte, l’avente diritto (eventuali eredi) può optare per una somma una tantum . Con la Legge n. 299/2005 è stato introdotto un ulteriore indennizzo, molto più elevato, corrisposto “ per la metà al soggetto danneggiato e per l’altra metà ai congiunti che prestano o abbiano prestato al danneggiato assistenza in maniera prevalente e continuativa ” L’indennizzo deve essere richiesto, entro tre anni (pena la prescrizione), all’A.S.L. di appartenenza che, mediante apposita Commissione medica ospedaliera (CMO), provvede a convocare a visita l'interessato e ad istruire la pratica, valutando, tra l’altro, il nesso causale tra l'infermità e la vaccinazione. Il relativo verbale viene poi notificato al richiedente che, entro i successivi trenta giorni, può presentare il ricorso gerarchico al Ministero della salute, oppure, entro il termine più lungo di un anno, quello giurisdizionale dinanzi al Tribunale sez. lavoro . 1.3. Danni prevedibili ed evitabili. Quando, invece, gli effetti indesiderati sono prevedibili ed evitabili, quindi, sussite la colpa o il dolo di chi ha preparato o somministrato il vaccino, è possibile ottenere, anziché un semplice indennizzo, il risarcimento effettivo dei danni subiti, patrimoniali e non patrimoniali, a carico, secondo il caso, del Ministero della Salute o del personale sanitario che ha somministrato il vaccino e l’ASL di appartenenza oppure della casa farmaceutica che ha prodotto il vaccino. Il Ministero della Salute risponde nel caso in cui l’effetto indesiderato sia causato da una intrinseca pericolosità del vaccino , per aver messo a disposizione dei pazienti un medicinale dannoso per la salute. In tal caso, configurandosi una responsabilità per fatto illecito ex art. 243 c.c. (Cass n. 9406/2011), il danneggiato dovrà farsi carico della prova sul nesso causale tra vaccino e danno . Il personale sanitario che ha somministrato il vaccino e l’ASL di appartenenza, rispondono, invece, per non aver valutato correttamente lo stato di salute del soggetto da vaccinare, se l’effetto indesiderato si è verificato per un’interazione dannosa tra farmaco ed organismo dovuta ad una inidoneità fisica del paziente. In tal caso, configurandosi una responsabilità contrattuale, o da contatto sociale, ex art.1218 e s.s. c.c., il danneggiato può limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di un'affezione, indicando l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato; il debitore (il personale sanitario e l’ASL), per scagionarsi, dovrà, al contrario, dimostrare che l’inadempimento non c’è stato o che è del tutto irrilevante. Riguardo le case farmaceutiche, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 6587/2019, ha stabilito che " In caso di effetti collaterali dei farmaci, la casa farmaceutica non risponde delle conseguenze qualora abbia posto in essere una costante opera di monitoraggio e di adeguamento delle informazioni commerciali e terapeutiche per eliminare o ridurre il rischio di effetti collaterali dannosi e di rendere edotti i potenziali consumatori”. Per la Cassazione, quindi, le case farmaceutiche non sono tenuti a risarcire il paziente per gli effetti collaterali prodotti dal farmaco/vaccino se hanno adeguatamente e con informazioni aggiornate segnalato la possibilità dell’effetto indesiderato nel bugiardino. Devono, comunque, osservare, in primis , tutte le sperimentazioni e protocolli previsti dalla legge per la produzione e commercializzazione del farmaco. Tale responsabilità si configura ai sensi dell’art. 2050 del Codice Civile, il quale afferma “ chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno” . La casa farmaceutica, infatti, svolge un’attività da considerarsi pericolosa, per l’intrinseca natura dei medicinali, e la prova liberatoria richiesta dalla legge (ossia, l’adozione di tutte le misure per evitare il danno), che la esonera da ogni responsabilità, è costituita dall’adeguata segnalazione sul bugiardino dei possibili effetti indesiderati e dalla rigorosa osservanza di tutte le sperimentazioni e protocolli previsti dalla legge per la produzione e commercializzazione del farmaco, così da eliminare o almeno ridurre il rischio di effetti collaterali dannosi. Per gli stessi motivi, anche in caso di eventuali danni conseguenti ad effetti indesiderati di lieve entità e del tutto temporanei, la casa farmaceutica risponde. se nel bugiardino non è indicato l’effetto indesiderato o non sono stati rispettati i protocolli nelle sperimentazioni Pertanto, la casa farmaceutica produttrice del vaccino è liberata dall’obbligo di risarcire il danno solo quando dimostri di aver adottato tutte le misure idonee a scongiurare l’effetto avverso o nel caso di effetto collaterale del tutto imprevedibile e le cui cause di insorgenza siano da considerarsi ignote e inimmaginabili. 2. Clausole di esonero di responsabilità per il vaccino anti Covid. Pur considerando quanto sin qui esposto, sembrerebbe, per quanto si apprende dagli organi di informazione, benchè privi di concreti riscontri, che la responsabilità per gli eventuali effetti collaterali, sia gravi che di lieve entità, conseguenti alla somministrazione dei vaccini anti Covid, sia stata disciplinata in modo un po’ differente. Innanzitutto, nel contratto di fornitura dei vaccini, sarebbero presenti alcune clausole che scaricano sul lo Stato italiano (come gli altri Stati europei) la responsabilità condivisa nel caso in cui il vaccino abbia effetti collaterali indesiderati , anche solo temporanei , sollevando le case farmaceutiche produttrici da ogni responsabilità in merito. Inoltre all’atto della somministrazione del vaccino (in particolare quello prodotto da Pfizer-Biontech), sarebbe richiesta la sottoscrizione di moduli che esonerano l'azienda farmaceutica e il personale sanitario che esegue la vaccinazione da qualsiasi responsabilità per eventuali reazioni avverse, danni a lunga distanza ovvero inefficacia della vaccinazione. Le suddette condizioni di esonero di responsabilità sarebbero la diretta conseguenza della impossibilità di produrre e commercializzare vaccini anti Covid osservando le necessarie misure di sicurezza, di cui abbiamo parlato nel precedente paragrafo. La necessità di ottenere i vaccini il più presto possibile, per combattere l’emergenza sanitaria in corso, ha fatto sì che non siano stati sperimentati in più anni, come per prassi, prima dell’utilizzo, ma solo pochi mesi, senza poter, adeguatamente, verificare, conoscere e segnalare eventuali effetti indesiderati, nonostante ricerche, studi ed esami eseguiti. Ciò, per legge, esporrebbe le case farmaceutiche a rispondere di ogni evento dannoso collegato ad effetti collaterali che non hanno potuto, per mancanza di tempo, sperimentare e studiare, né, quindi segnalare sul bugiardino, aggravando, eccessivamente, le loro respnsabilità. Tuttavia, le suddette condizioni di esonero, se effettivamente previste, potrebbero considerarsi nulle in quanto illegittimae, essendo del tutto contrarie ai diritti costituzionalmente garantiti al singolo, in primo luogo, il diritto alla salute, e a quanto stabilito all'art. 1229 del codice civile “ è nullo qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione di responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore e dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico ”. San Salvo, 22 aprile 2021. Avv.Vincenzo de Crescenzo
TUTELA, RISARCIMENTO E RESPONSABILITÀ PER CONTAGIO DA COVID-19 DEL PERSONALE SANITARIO A causa dell’emergenza sanitaria dovuta all’epidemia di Covid-19, assume particolare rilievo la tutela della salute dei lavoratori e, in particolare, degli operatori sanitari, più di chiunque esposti al contagio, in quanto impegnati, personalmente, nella lotta contro l'epidemia, prendendosi cura, quotidianamente, delle numerosissime persone infettate. Il nostro ordinamento prevede, in generale, l’obbligo di ciascun datore di lavoro di adottare le dovute misure di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, secondo quanto prescritto dalla Costituzione (art. 32), dal codice civile (art. 2087 c.c.) e dal D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (T.U. sulla tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di Lavoro). In sede penale, inoltre, sono previste a carico del datore di lavoro particolari fattispecie criminose, ai sensi dell’art. 437 c.p., “per rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro”, e dell’art. 451 c.p., “per omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro”. Il datore di lavoro, inoltre, dovrà rispondere dei reati di lesioni personali gravi o gravissime, ai sensi dell’art. 590 c.p., se l’inosservanza delle misure antinfortunistiche sia stata causa di infezione-malattia del lavoratore, oppure di omicidio colposo, ai sensi dell’art. 589 c.p., qualora al contagio sia seguita la morte; oltre che dei reati contravvenzionali per omissione di misure di sicurezza previsti dal D.Lgs. 626/94 e successivamente dal citato D.lgs n. 81/2008. Infine, specifici adempimenti a carico del datore di lavoro sono previsti dalle recenti normative speciali (Decreti e Ordinanze), emanate in via d’urgenza da Governo e Regioni, a tutela dell’incolumità pubblica e della salute della collettività. 1. La tutela INAIL . Tuttavia, preliminarmente, occorre, soffermarsi, brevemente, sulla tutela INAIL riservata ai lavoratori e, in particolare, agli operatori sanitari, in caso di effettivo contagio da Covid-19. Con nota del 17 marzo 2020 (riferendosi, in parte, quanto già previsto, in linea generale, dall’art. 42 comma 2 del Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020, c.d.“Decreto Cura Italia”), l'INAIL ha chiarito che, così come per le malattie infettive e parassitarie contratte in occasione di lavoro, anche i casi di Covid-19, relativi a medici, infermieri ed altri operatori sanitari in genere, sono da inquadrare come infortuni sul lavoro, “laddove sia accertata l’origine professionale del contagio, avvenuto nell’ambiente di lavoro, oppure per causa determinata dallo svolgimento dell’attività lavorativa”. Le patologie infettive, infatti, secondo l’indirizzo vigente in materia, sono inquadrate e trattate come infortunio sul lavoro, poichè la causa virulenta viene equiparata alla causa violenta propria dell’infortunio, anche quando i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo. La nota ha precisato, inoltre, che, nei casi in cui non fosse possibile stabilire né provare in quale occasione sia avvenuto il contagio, si può presumere (quindi senza necessità della prova) che lo stesso si sia verificato sul posto di lavoro, in considerazione delle mansioni/lavorazioni del dipendente contagiato e di ogni eventuale altro indizio in tal senso. Tanto vale, nell’attuale situazione pandemica, principalmente per gli operatori sanitari, esposti, certamente, per le loro mansioni specifiche, ad un elevato rischio di contagio (come ribadito anche nella successiva Circolare INAIL n. 13, del 3 aprile 2020). Per tali operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale (ex art. 2729 c.c.),, per cui si può presumere (senza necessità di provarlo) che il contagio del Covid-19 sia avvenuto sul lavoro, considerata appunto la elevatissima probabilità che, per via delle loro specifiche mansioni, essi vengano a contatto, durante ed a causa del proprio lavoro, con il nuovo coronavirus, come chiarito dalla successiva circolare Inail n. 13/2020. L’applicazione dei suddetti principi, consente agli operatori sanitari una tutela rapida ed efficace del diritto leso. Al contrario, per tutti gli altri lavoratori (salvo alcune eccezioni), la copertura assicurativa è riconosciuta a condizione che possano provare di aver contratto la malattia durante l’attività lavorativa; l’onere della prova, quindi, è posta a carico dell’assicurato. Ne consegue che gli operatori sanitari che abbiano contratto per lavoro la malattia da Covid19, possono ricevere dall’Inail l’indennizzo del periodo di temporanea assenza conseguente alla malattia (indennizzabile con l’indennità di inabilità temporanea) e dei postumi permanenti di danno biologico (indennizzati in capitale o con rendita in caso di postumi superiori al 16%). Nel caso in cui, invece, la malattia abbia causato il decesso dell’infortunato, i suoi superstiti hanno diritto all’assegno funerario ed alla rendita ai superstiti (art. 85 TU). L'INAIL, infine, presumendo che il contagio possa avvenire anche nel tragitto lavoro/casa, riconosce, anche in tal caso, l'applicabilità del c.d. infortunio in itinere; chiarisce, inoltre, in conformità con la giurisprudenza prevalente, che la trattazione del contagio da Covid-19 come infortunio sul lavoro non esclude anche la tutela concorrente della malattia professionale, allorché, però, siano provati tutti gli elementi costituitivi della stessa. 2. La responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. Detto della tutela INAIL del lavoratore e, in particolare, del personale sanitario, vittima di contagio da Covid-19, passiamo a considerare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro, di cui abbiamo, brevemente, accennato nelle premesse iniziali, facendo riferimento, in particolare, all’art. 2087 c.c. ed al D. Lgs. 9 aprile 2008 n. 81 (T. U. sulla tutela della salute e della Sicurezza sui luoghi di Lavoro). Gli operatori sanitari (e i dipendenti in genere) contagiati, oltre l’indennizzo INAIL, potrebbero richiedere anche al proprio datore di lavoro un risarcimento (c.d. danno differenziale), allorchè, per la generale impreparazione del paese e, soprattutto, delle strutture sanitarie, si siano trovati a dover affrontare l'emergenza sanitaria del Covid-19 senza la dovuta organizzazione per la tutela della propria salute. Tuttavia, occorre premettere che, dal riconoscimento del contagio come infortunio sul lavoro, non deriva, automaticamente, una responsabilità del datore di lavoro, che risponde, penalmente e civilmente, delle infezioni di origine professionale dei dipendenti solo se viene accertata la propria responsabilità per dolo o per colpa. Lo precisa l’Inail, in più occasioni e, soprattutto, con la recente circolare n. 22/2020. Non si possono confondere, infatti, i criteri applicati dall’Inail per il riconoscimento di un indennizzo a un lavoratore infortunato con quelli totalmente diversi che valgono in sede penale e civile, dove l’eventuale responsabilità del datore di lavoro deve essere rigorosamente accertata attraverso la prova del dolo o della colpa nella determinazione dell’infortunio, come il mancato rispetto della normativa a tutela della salute e della sicurezza (che nel caso dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali). La norma basilare per il riconoscimento della responsabilità del datore di lavoro, è l'art. 2087 del Codice Civile, che impone al datore di lavoro, in generale (sia pubblico che privato), di “adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Il datore è, quindi, responsabile per gli infortuni sul lavoro dei propri dipendenti ed è tenuto al risarcimento del danno verificatosi, quando il sinistro sia riconducibile ad un suo comportamento colpevole per aver violato uno specifico obbligo di sicurezza imposto da norme di legge, oppure, desumibile dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, consistente nel predisporre tutte quelle misure necessarie o quantomeno consigliabili per poter ridurre al minimo il rischio che i dipendenti si ammalino sul posto di lavoro o subiscano incidenti o qualsiasi altro evento che possa mettere a rischio la loro sicurezza.. 2.1. Il D.lgs. 81/2008 e le misure di sicurezza contro il Covid-19. Dall'art. 2087 c.c. trovano giustificazione ed origine le speciali norme del D.lgs. 81/2008 (Testo Unico delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro), che fissa, innanzitutto, le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro che ogni azienda deve rispettare. In particolare, l'art. 18, comma 1, lett. d) dispone che il datore di lavoro è tenuto a fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale (definiti all’art. 72 del T.U.: "qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonchè ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo”). L'art. 71 del T.U. prevede l'obbligo del datore di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature “idonee ai fini della salute e sicurezza e adeguate al lavoro da svolgere o adattate a tali scopi, che devono essere utilizzate conformemente alle disposizioni legislative di recepimento delle direttive comunitarie”. Oltre a fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, le misure sulla sicurezza riguardano, in genere, la programmazione della prevenzione, la valutazione e la corretta informazione su tutti i rischi connessi ad una specifica attività. Nell’attuale emergenza sanitaria, inoltre, i datori di lavoro sono tenuti al rispetto delle normative speciali (Decreti e Ordinanze) emanate, in via d’urgenza, a tutela dell’incolumità pubblica e della salute della collettività, da Governo e Regioni, che, per contrastare il contagio da Covid-19, prescrivono, ad esempio, le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, di svolgimento di incontri e riunioni, di acesso agli spazi destinati alle mense o il comportamento da adottare in caso di contagi sospetti o confermati, la rilevazione della temperatura, l’igiene e sanificazione dei luoghi di lavoro. Riguardo, in modo specifico, gli operatori sanitari, la Circolare n. 5443, del 22 febbraio 2020, del Ministero della Salute, così dispone: “il personale sanitario in contatto con un caso sospetto o confermato di COVID-19 deve indossare DPI adeguati, consistenti in filtranti respiratori FFP2 (utilizzare sempre FFP3 per le procedure che generano aerosol), protezione facciale, camice impermeabile a maniche lunghe, guanti”. Prosegue, stabilendo che: “le strutture sanitarie sono tenute al rispetto rigoroso e sistematico delle precauzioni standard oltre a quelle previste per via aerea, da droplets e da contatto”. Di conseguenza, si può, certamente, ritenere il datore di lavoro e, in particolare, la struttura sanitaria responsabile dell’eventuale contagio dei propri dipendenti a causa della mancanza dei dispositivi di protezione individuale (DPI), in quanto specificamente previsti dalle vigenti norme in materia per la sicurezza sui luoghi di lavoro. In generale, l’inosservanza dei prescritti obblighi di sicurezza, in caso di infotrunio/contagio di alcuni lavoratori/sanitari, può, certamente, comportare, per il datore di lavoro, oltre che una condanna penale (per omicidio colposo o per lesioni), una responsabilità contrattuale per inadempimento dell’obbligo generale di cui all’art. 2087 c.c. (non avendo adottato le misure necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica del lavoratore), con eventuale condanna per risarcimento danni al dipendente, pari alla differenza tra il danno complessivamente subito e la quota già indennizzata dall’Inail. Il lavoratore che abbia già beneficiato della tutela INAIL, può agire, quindi, anche, contro il datore di lavoro che non osserva le norme antinfortunistiche, per otternere il c.d. danno differenziale, allorchè il risarcimento/indennizzo già ottenuto sia inferiore al danno effettivamente subito. L’INAIL, infatti, riconosce un indennizzo in maniera automatica, con lo scopo di garantire mezzi adeguati al lavoratore che abbia subito un infortunio, che non sempre è sufficiente a risarcire gli effettivi pregiudizi subiti. Mentre, il danno differenziale a carico del datore di lavoro è regolato dalle norme civilistiche e va a risarcire il lavoratore del pregiudizio subito sotto tutti gli aspetti e, quindi, a titolo di danno patrimoniale, biologico, morale, esistenziale. Per ottenere il riconoscimento in giudizio del cosiddetto danno differenziale, al lavoratore sarà sufficiente fornire la prova dell’infortunio/contagio subito e della violazione da parte del datore di lavoro dei doveri di tutela dell'integrità fisica dei propri dipendenti. 3. La responsabilità medica. In caso di contagio da Covid-19 dei pazienti in cura presso un’aziende sanitaria, gli operatori sanitari e l’azienda stessa, potrebbero, in determinati casi, esserne ritenuti responsabili. In particolare, la responsabilità medica, è quel tipo di responsabilità che deriva dai danni cagionati ai pazienti da errori od omissioni dei sanitari (medici, infermieri e ogni altro operatore sanitario), in concomitanza o meno con le inefficienze e carenze organizzative della struttura sanitaria, che non tratteremo in questa circostanza.. Ricorre, pertanto, quando sussiste un preciso legame, ovvero un nesso causale tra la condotta (errore o omissione) dell'operatore sanitario (che può verificarsi nella fase diagnostica, in quella prognostica o nella fase terapeutica) e la lesione alla salute subita del paziente, per cui si possa ritenere che quest’ultima sia conseguenza diretta della prima. Il paziente della struttura sanitaria, che ha subito un danno derivante da responsabilità medica, ha la possibilità di chiederne il risarcimento, oltre che al sanitario e all'impresa di assicurazioni, anche alla stessa struttura sanitaria, la quale, oltre che rispondere direttamente dei danni derivanti dalle proprie carenze organizzative e strutturali, risponde, indirettamente e in solido per il fatto del proprio personale dipendente o ausiliario (medico ed infermieristico). La legge 24 dell'8 marzo 2917 (legge Gelli-Bianco), ha apportato rilevanti modifiche a riguardo, differenziando, soprattutto, la posizione degli operatori sanitari da quella della struttura sanitaria, con evidente vantaggio per i primi, ora più difficilmente aggredibili. Innanzitutto, in ambito penale, ha eliminato ogni riferimento alla controversa colpa lieve, introdotta dalla precedente Legge Balduzzi, escludendo la responsabilità dei sanitari per i casi di imperizia (art. 590-sexies), laddove dimostrino di essersi attenuti alle linee guida validate e pubblicate online dall'Istituto superiore di sanità. Negligenza e imprudenza, invece, anche in caso di rispetto delle suddette linee guida, determinano, comunque, la punibilità del sanitario. In sede civile, ha introdotto una diversa qualificazione delle responsabilità della struttura sanitaria e del personale sanitario, a favore di quest’ultimo, che dovrà rispondere del proprio operato secondo le regole della responsabilità extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2043 c.c., mentre la struttura sanitaria risponderà a titolo contrattuale, ex art. 1218 e 1228 c.c., con tutto ciò che ne consegue riguardo l’onere probatorio e la prescrizione. Nell’azione promossa per responsabilità contrattuale contro l’azienda il diritto al risarcimento danni si prescrive nel più lungo termine di dieci anni e l'onere della prova ricade sul debitore (l’azienda sanitaria). Il danneggiato dovrà provare, semplicemente, l'esistenza del contratto (ovvero, le fasi del ricovero e del trattamento), l’inadempimento del debitore (rappresentato dell'aggravamento della situazione patologica o dell'insorgenza di nuove patologie) ed il nesso di causalità con l'azione o l'omissione dei sanitari, rimanendo in capo alla struttura sanitaria la prova dell'esatto adempimento ovvero dell'inadempimento non imputabile Al contrario, nell’azione per responsabilità extracontrattuale a carico dei sanitari, il termine di prescrizione è ridotto a soli cinque anni e l’onere della prova è tutto a carico del danneggiato, il quale dovrà provare il fatto illecito commesso dai sanitari, l'esistenza del danno subito, il nesso di causalità con la condotta del sanitario e, soprattutto, l’elemento soggettivo, cioè la colpa (o dolo) dello stesso. Infine, l’art. 9 della riforma Gelli-Bianco stabilisce che, ove l’azienda sanitaria sia chiamata a risarcire, in via giudiziale o stragiudiziale, il danno alla salute provocato dalla condotta o omissione del personale sanitario, ha diritto di rivalersi sugli stessi sanitari colpevoli della somma corrisposta al danneggiato, ma solo in caso di dolo o colpa grave dei sanitari, limitando così il loro pregiudizio ai soli casi più estremi. San Salvo, 29 maggio 2020. Avv. Vincenzo de Crescenzo
IL NUOVO PROCESSO DI SEPARAZIONE E DIVORZIO A DOMANDA CONGIUNTA DOPO LA RIFORMA CARTABIA Il processo di separazione personale e divorzio (cessazione degli effetti civili o scioglimento del matrimonio) è stato, recentemente, rivoluzionato dalla riforma del diritto di famiglia attuata dalla cosiddetta riforma Cartabia (D.lgs, n. 149/2022) , con l'obiettivo principale di semplificare e snellire la procedura, eliminando la fase presidenziale e centralizzando la trattazione del giudizio nelle mani del giudice relatore. La riforma, infatti, prevede una nuova disciplina, non solo per il processo contenzioso di separazione e divorzio, ma anche per quello consensuale. In particolare, ha introdotto una nuova disposizione ( art. 473 bis 51 c.p.c .) che stabilisce una nuova disciplina processuale su domanda congiunta, riservata non solo alla separazione e al divorzio, bensì anche ad altre situazioni come lo scioglimento dell'unione civile, la regolamentazione dell'esercizio della responsabilità genitoriale nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio e la modifica delle condizioni delle procedure precedenti. La domanda congiunta deve essere presentata mediante ricorso (con l’assistenza, non più facoltativa, ma obbligatoria di uno o più avvocati), dinanzi al Tribunale del luogo di residenza o domicilio di una delle due parti, indifferentemente, anche se sono coinvolti figli minori, in deroga alla regola generale per cui è sempre competente il tribunale del luogo in cui il minore ha la residenza abituale. Un’altra rilevante novità introdotta dalla riforma Cartabia prevede che il ricorso congiunto debba essere sottoscritto, a conferma della loro volontà conciliativa, anche dalle parti che, invece, in precedenza, essendo sufficiente la sola firma dell'avvocato, si limitavano a sottoscrivere la procura alle liti e, successivamente, in udienza, le condizioni di separazione concordate. Comunque, considerato l’obbligo per gli avvocati del deposito telematico anche dell’atto introduttivo del giudizio (ex art. 196 quater delle disposizioni di attuazione del c.p.c., introdotto, anch’esso, dalla riforma Cartabia) e che, per lo più, i privati non dispongono di firma digitale, il ricorso da depositare, di fatto, potrà essere ugualmente sottoscritto (digitalmente) dal solo avvocato, allegando, quale documento e non come atto principale, una copia del ricorso stesso, con la firma anche cartacea delle parti . L’ art . 473 bis 51 c.p.c. stabilisce, inoltre, gli elementi obbligatori del ricorso, che deve contenere, in particolare, oltre alle informazioni sui dati personali delle parti, compresi i figli comuni se minori, le indicazioni sulle loro disponibilità reddituali e patrimoniali degli ultimi tre anni e sugli oneri a proprio carico (come il pagamento del mutuo o del canone di locazione), le condizioni riguardanti i figli e i rapporti economici (come il contributo al loro mantenimento). La norma prevede, ancora, la facoltà delle parti di regolmentare con il ricorso anche i reciproci rapporti patrimoniali. In presenza di minori, il ricorso dovrebbe includere anche un piano genitoriale, come nei procedimenti giudiziali contenziosi (ex art. 473 bis 12, comma 3°), consistente in un documento che stabilisce, dettagliatamente, gli impegni e le attività quotidiane dei figli, inclusi aspetti come la scuola, l'educazione, le attività extrascolastiche, le amicizie e le vacanze. Il condizionale è ancora d’obbligo, poichè la normativa a riguardo non sembra del tutto chiara, in attesa delle prime pronunce giurisprudenziali, benchè l’orientamento prevalente sembri ormai favorevole all’obbligo del piano genitoriale non solo per separazioni e divorzi giudiziali, ma anche per le domande consensuali e congiunte. La riforma Cartabia, inoltre, consente alle parti di sottrarsi all’obbligo di comparire fisicamente dinanzi il Tribunale, avvalendosi della facoltà di depositare delle note scritte (contenenti, ai sensi del nuovo art. 127-ter c.p.c. , solo le istanze e le conclusioni delle parti), in sostituzuine dell’udienza di comparizione, fissata in seguito al deposito del ricorso congiunto, a cui devono rinunciare espressamente nel ricorso stesso e dichiarare di non volersi riconciliare. In ogni caso, se ritiene necessario modificare le condizioni proposte, poichè in contrasto con gli interessi dei figli, o se necessita di ulteriori chiarimenti, il giudice ha sempre la facoltà di convocare le parti, invitandole, eventualmente, ad integrare quanto allegato al ricorso introduttivo, depositando la documentazione di cui all’art. 473-bis 12, comma 3° , attestante la titolarità di diritti reali su beni immobili e beni mobili registrati, di eventuali quote sociali e gli estratti conto dei rapporti bancari e finanziari relativi agli ultimi tre anni. Ricevuto, quindi, il parere favorevole del pubblico ministero (a cui sono stati trasmessi gli atti), sentite le parti e verificata, comunque, l’impossibilità di una riconciliazione, il giudice istruttore rimette la causa al collegio per la decisione. La procedura a domanda congiunta, infatti, si conclude con una sentenza di competenza del Tribunale in composizione collegiale, che può decidere di omologare o prendere atto degli accordi tra le parti, se siano li ritiene contrari agli interessi dei figli, oppure, convocare le parti per chiederne una modifica e, in mancanza di accordo, rigettare la domanda congiunta. Accenniamo, brevemente, anche alla facoltà delle parti, introdotta dalla riforma, di proporre, contestualmente, nello stesso atto introduttivo, sia domanda di separazione che di divorzio, senza dover attendere che trascorrano, per lo meno, sei mesi tra l’una e l’altra, come previto dalla previgente disciplina. Tale facoltà (che prevede l’indicazione nel ricorso delle condizioni relative sia alla separazione che al divorzio e la definizione del processo con sentenza di divorzio successiva al passaggio in giudicato di quella sulla separazione e al decorso del termine a tal fine previsto dalla legge) è introdotta, invero, dall’art. 473-bis 49 c.p.c. (rubricato “ Cumulo di domande di separazione e scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio ”), che prevede la possibilità del cumulo delle domande solo nel procedimento contenzioso di separazione personale dei coniugi, senza fare alcun riferimento espresso a quello su domanda congiunta di cui all’ art . 473 bis 51 c.p.c. . Quest’ultimo, a sua volta, nulla disponendo in merito, neanche richiama il primo in alcun modo, pertanto, ad oggi, esistono ancora dubbi interpretrativi sulla possibilità o meno che il cumulo delle domande possa applicarsi anche per la separazione o il divorzio su procedura congiunta, che la dottrina e giurisprudenza in materia, ancora non univoca, dovranno, certamente, risolvere a breve. Infine, smpre ai sensi dell’art. 473 bis 51 c.p.c. , comma 6°, quando la domanda congiunta riguarda la modifica delle condizioni relative all'esercizio della responsabilità genitoriale e ai contributi economici per i figli o le parti, il Tribunale nomina un relatore che, ricevuto il parere del pubblico ministero, riferisce in camera di consiglio. Può, inoltre, convocare personalmente le parti, se lo richiedono o se sono necessari chiarimenti sulle nuove condizioni proposte. San Salvo, 31 luglio 2023 Avv. Vincenzo de Crescenzo
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IL CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO: LE RECENTI MODIFICHE DEL DECRETO LEGGE DEL 4 MAGGIO 2023 N. 48. Il contratto di lavoro a tempo determinato è una forma di contratto subordinato che, a differenza del conratto a tempo indeterminato, presenta un termine la cui scadenza determina la fine automatica del rapporto di lavoro. Previsto, inizialmente, dalla legge n. 230/1962 , nel corso degli anni ha subito diverse modifiche normative introdotte, in particolare, dalle norme conosciute come "pacchetto Treu” del 1997, che hanno introdotto forme di lavoro a tempo determinato, come il lavoro interinale e il contratto di collaborazione coordinata e continuativa. Il Decreto Legislativo n. 368/2001 , che ha ulteriormente liberalizzato la disciplina dei contratti a termine abrogando la legge del 1962 e introducendo ulteriori requisiti per la validità del rapporto di lavoro a termine, tra cui l'obbligo di indicare per iscritto il termine e le relative ragioni, nonché alcuni divieti, come l'assunzione di lavoratori per sostituire scioperanti o durante il trattamento di integrazione salariale, pena la trasformazione del contratto a tempo indeterminato. Sucessivamente la legge Biagi del 2003 ha introdotto nuove tipologie di contratti a termine, come il contratto a progetto e l'istituto della somministrazione di lavoro, sia a tempo determinato che a tempo indeterminato. Mentre, la riforma del lavoro Fornero del 2012 ha modificato l'articolo 1 del decreto legislativo del 2001, affermando che il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato è la forma comune di rapporto di lavoro. salvo eccezioni per i primi rapporti di lavoro subordinato con durata non superiore a dodici mesi, indipendentemente dalle mansioni assegnate al dipendente, e per la somministrazione di lavoro a tempo determinato. Ma, in particolare, con il recente Decreto Legge del 4 maggio 2023 n. 48 , intitolato " Disciplina del contratto di lavoro a termine ", sono state apportate rilevanti modifiche alla disciplina vigente sul contratto a tempo determinato contenuta dall’art.19 e ss. del decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81 (c.d. Jobs Act), come modificato dal c.d. “decreto dignità”, decreto legge 12 luglio 2018 n.87, convertito con legge 9 agosto 2018 n. 96. È previsto, infatti che le lettere a)b)b-bis del comma 1 siano sostituite da altra disciplina e il comma 1.1 sia abrogato. Infatti, mentre, prima il contratto a termine poteva avere una durata superiore a 12 mesi ma non superiore a 24 mesi, a condizione che ricorressero determinate condizioni (come esigenze temporanee e oggettive estranee all'ordinaria attività o esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell'attività ordinaria), l'entrata in vigore del Decreto Legge n. 48/2023 stabilisce una nuova disciplina, che prevede sempre la possibilità per le parti di stipulare un primo contratto della durata di 12 mesi, ma senza doverne indicare il motivo (c.d. acausalità del contratto a termine); e la durata massima di una pluralità di contratti a termine fino a 24 mesi, a seguito di proroghe (non più di 4) o rinnovi (senza limitazione), con motivazioni, in entrambi i casi, diverse da quelle della precedente disciplina. In particolare, sono state individuate nuove causali, in sostituzione di quelle attualmente in vigore, da dover indicare nei contratti a termine oltre i 12 mesi, affinchè possano ritenersi legittimi, allentando, così, le restrizioni previste dal Decreto Dignità (DL n. 87/2018) , per cui era stata imposta una stretta all’utilizzo del lavoro a termine , e consentire un uso più flessibile della tipologia contrattuale. Il datore di lavoro resta, così, obbligato ad indicare la causale che giustifichi la proroga o il rinnovo di un contratto di lavoro a tempo determinato superiore ai 12 mesi (ma non oltre 24 mesi) che, tuttavia, potrà considerarsi legittimo solo: · nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51; · in assenza delle previsioni di cui al punto precedente, nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 30 aprile 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti; · in sostituzione di altri lavoratori. Le nuove causali, tuttavia, come previsto dal decreto , non si applicano: · ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni; · ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati dalle università private, istituti pubblici di ricerca, società pubbliche che promuovono la ricerca e l’innovazione; · ai contratti stipulati da enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere attività di insegnamento, di ricerca scientifica o tecnologica, di trasferimento di know-how, di supporto all’innovazione, di assistenza tecnica alla stessa o di coordinamento e direzione. A questi, infatti, continuano ad applicarsi le disposizioni previgenti . Infine, rileviamo come il Decreto in esame mantenga, comunque, varie disposizioni della normativa precedente, tra cui: · La possibilità di stipulare contratti a tempo determinato senza la necessità di giustificarne le ragioni quando la durata non supera i 12 mesi. · La disciplina delle proroghe e dei rinnovi dei contratti, con una durata massima che non supera i 24 mesi. · La possibilità di accertare la presenza di ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustifichino la necessità di stipulare contratti con durata superiore a 24 mesi, entro il limite dei 36 mesi, presso le sedi territoriali dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro (cd. Contratto in deroga assistita). · I limiti numerici dei lavoratori a termine in proporzione al numero di dipendenti a tempo indeterminato in forza al 1º gennaio dell'anno di assunzione. · Le esenzioni ai limiti numerici in caso di avvio di altre attività, per periodi stabiliti dai contratti collettivi, attività stagionali, sostituzione di lavoratori assenti, lavoratori over 50. · Le addizionali che il datore di lavoro è tenuto a pagare in caso di rinnovi del contratto a termine. San Salvo, 18 luglio 2023 Avv. Vincenzo de Crescenzo
PASSAGGIO IN GIUDICATO DELLA SENTENZA DI DIVORZIO La sentenza di divorzio scioglie ogni vincolo matrimoniale tra le parti ed ha efficacia, agli effetti civili, solo dopo la sua trascrizione nei registri dello stato civile del Comune dove i coniugi si sono sposati, che avviene in seguito al suo passaggio in giudicato. In genere, ogni sentenza passa in giudicato (cioè diventa definitiva) quando non è più possibile impugnarla, o perché sono stati utilizzati tutti i mezzi di impugnazione consentiti o perche sono trascorsi i termini utili per proporre l’impugnazione (trenta o sessanta giorni dalla notifica della sentenza o sei mesi dalla sua pubblicazione). Detto ciò, precisiamo che l’impugnazione di una qualsiasi sentenza è riservata alla parte soccombente (anche parzialmente soccombente), pertanto chi ha vinto la causa, vedendosi accolte tutte le richieste avanzate, non ha alcun interesse e diritto ad impugnare la sentenza. In caso di divorzio giudiziale, dove le parti sono contrapposte e formulano richieste diverse e contrastanti, essendo possibile, per la parte che risulterà soccombente, impugnare la sentenza, questa potrà essere trascritta solo in seguito al suo passaggio in giudicato. Al contrario, in caso di divorzio su ricorso congiunto delle parti, che non sono contrapposte ma concordano su ogni aspetto e condizione del divorzio, secondo l’orientamento prevalente da alcuni anni, la sentenza di accoglimento deve considerarsi già passata in giudicato subito dopo la sua pubblicazione (cioè il deposito nella cancelleria del Tribunale), senza la necessaria decorrenza dei termini, brevi o lunghi, per l’impugnazione, in quanto nessuna delle due parti può avere interesse e diritto all’impugnazione di una sentenza che ha soddisatto integralmente le richieste di entrambe. Ai fini della trascrizione di una sentenza su ricorso congiunto di divorzio dovrebbe, quindi, essere sufficiente la sua pubblicazione, senza dover attendere che sia passata in giudicato, non essendo possibile impugnarla. Per l’orientamento contrario, che ritiene il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio sempre necessario prima della sua trascrizione nei registri dello stato civile, nelle more, la sopravvenuta morte del coniuge, in ogni caso, determina la cessazione della materia del contendere, con riferimento al rapporto di coniugio e a tutti i profili economici connessi, onde l’evento della morte sortisce l’effetto di travolgere ogni pronuncia in precedenza emessa e non ancora passata in giudicato ( Cass.azione Civile, Ordinanza n. 31358/2019 ) Il divorzio sarebbe, quindi, inefficace ed il coniuge superstite risulterebbe ancora separato coservando, così, i diritti successori sul patrimonio dell’altro coniuge scomparso, quale erede legittimario. San Salvo, 01/07/2021. Avv.Vincenzo de Crescenzo
PUÒ ESSERE LICENZIATO CHI RIFIUTA IL VACCINO ANTI COVID-19? Considerata l’ ormai imminente vaccinazione di massa, già in atto nei casi più rischiosi, ed i comprensibili timori verso vaccini preparati in tempi record, s i impone un’attenta riflessione sulla possibilità che il vaccino anti Covid-19 possa essere obbligatorio, in particolare, per i lavoratori. Premesso che, ad oggi, la vaccinazione anti Covid-19 non è obbligatoria ed è gratuita, è necessario, tuttavia, fare alcune precisazioni. Nella nostra Costituzione è previsto il principio per cui nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario se non per disposizione di legge . La Corte Costituzionale, inoltre, ha più volte sancito che “ la tutela della salute è un diritto dell’individuo e un interesse della collettività” , stabilendo, in particolare , con la sentenza n. 258/1994 , che un provvedimento normativo può imporre uno specifico trattamento sanitario solo se diretto a migliorare e preservare lo stato di salute, non solo di chi vi è assoggettato, ma anche degli altri. Quindi, secondo la corrente di pensiero più tradizionale, la possibilità di trattamenti sanitari obbligatori, tra cui la vaccinazione anti Covid-19, è prevista dalla Costituzione, ma richiede una legge specifica. Per adesso, un licenziamento per giusta causa del dipendente che rifiuta il vaccino, in mancanza di una legge che lo renda obbligatorio, potrebbe ritenersi illegittimo. Una diversa corrente ritiene, invece, che il rifiuto di vaccinarsi potrebbe, già da oggi, giustificare il licenziamento del lavoratore. In tal senso, si consideri, in primo luogo, l’art. 2087 del Codice Civile , che impone al datore di lavoro di porre in essere tutte le misure necessarie ai fini della salvaguardia di un ambiente di lavoro sicuro e salubre . Tra queste misure, senza dubbio, oggi, rientra anche il vaccino anti Covid-19 e chi rifiuta di vaccinarsi mette a rischio la salute di altre persone e, di conseguenza, la prosecuzione del rapporto di lavoro. Inoltre, se è vero che l’articolo 32 della Costituzione dice che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, è altrettanto vero che questa legge esiste già. L’art. 279 del Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro, infatti, impone al datore di lavoro di mettere a disposizione vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico, da somministrare a cura del medico competente . La stessa norma, impone, altresì, l' allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell'articolo 42 , per cui il datore di lavoro deve attuare le misure indicate dal medico competente e, qualora le stesse prevedano un’ inidoneità alla mansione specifica , deve adibire il lavoratore, ove possibile , a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori, garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza. Ma, ove ciò non fosse possibile, l’obbligo cadrebbe ed il licenziamento potrebbe risultare motivato. Per la Cassazione, infatti, tale obbligo di ripescaggio non può ritenersi violato quando la ricollocazione del lavoratore in azienda con altre mansioni non è compatibile con l'assetto organizzativo stabilito dall'azienda stessa. Pertanto, attualmente, il lavoratore che rifiuta di vaccinarsi, non può essere obbligato a farlo, ma può essere destinato ad altra mansione e, se ciò non fosse possibile, perché incompatibile con l'assetto organizzativo dell'azienda, potrebbe anche essere licenziato. La normativa è chiara nel prevedere la messa a disposizione del vaccino, l’allontanamento e la destinazione ad altra mansione, solo se possibile, del lavoratore inidoneo che rifiuti di vaccinarsi. Infine, occorre anche dire che, in ogni caso, la possibilità di licenziare il dipendente che rifiuta il vaccino dipende anche alle condizioni di lavoro . Se in certi ambienti, dove il rischio di contagio è più elevato, potrebbe rivelarsi necessaria la vaccinazione , in altri, dove il pericolo è inferiore, può essere sufficiente l’utilizzo dei tradizionali Dpi. San Salvo, 15 febbraio 2021 Avv.Vincenzo de Crescenzo
RETRIBUZIONE DEL TURNO FESTIVO INFRASETTIMANALE DELL’INFERMIERE OSPEDALIERO Riconosciuto al personale turnista del Servizio Sanitario Nazionale il compenso per lavoro straordinario dell’attività resa nei giorni festivi infrasettimanali. Con una recentissima pronuncia del del 25 gennaio 2021 (ordinanza n. 1505/2021), la Corte di Cassazione, riformando la sentenza di secondo grado, ha riconosciuto il diritto del personale turnista del Servizio Sanitario Nazionale, al compenso per lavoro straordinario, in alternativa al riposo compensativo, dell’attività resa nei giorni festivi infrasettimanali. La Corte d’Appello di Napoli, infatti, uniformandosi all’indirizzo finora più diffuso tra le varie Asl, sostenute dal parere dell’ARAN, con la sentenza poi riformata in Cassazione, affermava che il pagamento della maggiorazione, prevista dall’art 9 del CCNL 20.09.2001 integrativo del CCNL 7.4.1999 , in favore del personale del comparto sanità, chiamato a rendere la prestazione lavorativa nei giorni festivi infrasettimanali, non riguardasse anche il personale turnista, per il quale era già previsto, specificamente, all’articolo 44 del CCNL 1.9.1995, comma 12, una indennità per il servizio di turno prestato per il giorno festivo. Detto ciò, precisiamo di seguito quanto previsto dai due articoli in oggetto. L’art 9 del CCNL 20.09.2001, comma 1, dispone che: “ Ad integrazione di quanto previsto dall’ art. 20 del CCNL 1 settembre 1995 e 34 del CCNL 7 aprile 1999, l’attività prestata in giorno festivo infrasettimanale dà titolo, a richiesta del dipendente da effettuarsi entro trenta giorni, a equivalente riposo compensativo o alla corresponsione del compenso per lavoro straordinario con la maggiorazione prevista per il lavoro straordinario festivo”. L’art. 44 del CCNL 1.9.1995, comma 12, dispone che: “ Per il servizio di turno prestato per il giorno festivo compete un’indennità di L. 30.000 lorde se le prestazioni fornite sono di durata superiore alla metà dell’orario di turno, ridotta a L. 15.000 lorde se le prestazioni sono di durata pari o inferiore alla metà dell’orario anzidetto, con un minimo di 2 ore. Nell’arco delle 24 ore del giorno festivo non può essere corrisposta a ciascun dipendente più di un’indennità festiva”. La Corte territoriale sosteneva, quindi, che l’indennità riconosciuta in favore del personale turnita all’articolo 44 del CCNL 1.9.1995 al comma 12, fosse onnicomprensiva ed impedisse, pertanto, il riconoscimento ulteriore della maggiorazione retributiva prevista all’ art 9 del CCNL 20.09.2001, comma 1, da applicarsi, invece, solo ed esclusivamente al personale diurnista. La Suprema Corte, al contrario, con la pronuncia in oggetto, come detto, riformando, in favore dei sanitari parte in causa, la sentenza della Corte d’Appello di Napoli, ha dichiarato che le previsioni dei suddetti articoli del CCNL di categoria non possono ritenersi in contrapposizione tra di loro, ma sono perfettamente compatibili. Per la Cassazione, infatti, la maggiorazione riconosciuta dall’articolo 44 è data dalla maggiore gravosità del lavoro prestato sempre su turni variabili, gravosità che si accresce allorquando la prestazione venga richiesta in ora notturna o in giorno festivo. Al contrario l’articolo 9, riconosce innanzitutto il diritto al riposo compensativo per il lavoro prestato nei giorni festivi infrasettimanali, e solo in alternativa il trattamento economico per lavoro straordinario. Entrambi i benefici sono, quindi, cumulabili ed il personale turnista può, così, usufruire di entrambe le indennità, in caso di lavoro nei giorni frstivi infrasettimanali : “ l’indennità prevista dall’articolo 44 commi 3 e 12 del CCNL 1.9.1995 per il personale del comparto sanità, è cumulabile con il diritto riconosciuto al lavoratore dell’articolo 9 del CCNL 20.09.2001, di godere di riposo compensativo per il lavoro straordinario e di avere in alternativa riconosciuto alla maggiorazione prevista per il lavoro straordinario”. Questo nuovo indirizzo creerà, crtamente, qualche difficoltà nelle varie Asl che, difficilmente, provvederanno al pagamento spontaneo delle dovute differenze retributive maturate dal personale in virtù della disciplina del servizio festivo infrasettimanale, (oggi riportata, fedelmente, all’articolo 29 del CCNL 2016/2018, comma 6). In molti casi, quindi, per ottenere quanto dovuto, potrebbe risultare inevitabile la presentazione di un ricorso dinanzi al Tribunale del Lavoro (anche mediante la procedura più snella e veloce del ricorso per decreto ingiuntivo), per il quale occorre, semplicemente, provare (mediante le schede presenza) di aver lavorato nei giorni festivi infrasettimanali, senza aver percepito la dovuta indennità, ottenendo, così, il pagamento, a titolo di straordinario, degli arretrati maturati negli ultimi cinque anni, termine di prescrizione previsto per i crediti retributivi. San Salvo, 3 febbraio 2021 Avv.Vincenzo de Crescenzo
SPESE STRAORDINARIE PER I FIGLI Prescuola, doposcula e baby sitter Uno degli argomenti pià dibattuti tra gli ex coniugi è, senz’altro, quello delle spese per i figli e in particolare di quelle straordinarie. Queste sono così denominate perché non prevedibili (o perché di importo eccessivo rispetto al reddito) e non rientrano tra quelle comprese nell’assegno mensile per alimenti, definite ordinarie, che sono quelle più ricorrenti, necessarie, in genere, per le sigenze principali e quotidiane dei figli (vitto, abbigliamento, cotributo per spese dell’abitazione, medicinali da banco ec. ecc.). Le innumerevoli controversie e contraddizioni che si sono avute a riguardo nel corso degli anni, in mancanza di una normativa che indicasse esattamente la dovuta ripartizione delle spese, ha indotto, negli ultimi anni, i vari Tribunali ad adottare, protocolli d’intesa con gli Ordini degli avvocati, dove vengono riportate, distintamente, in un elenco, piuttosto completo, le spese per i figli considerate ordinarie, quindi comprese nell’assegno mensile di mantenimento, e quelle considerate straordinarie, che devono, invece, essere rimborsate pro quota, di volta in volta, al genitore che le ha sostenute. I protocolli spese adottati dai Tribunali, pur prevenendo parte del contenzioso in materia, non sono sempre esattamente uguali tra loro, ma, in alcuni casi, presentano alcune differenze che possono ancora creare un po’ di confusione e, soprattutto, un’ingiusta differenza di trattamento in giudizio, in base al Giudice territorialmente competente, di casi tra loro simili. Tuttavia, il protocollo spese stilato dal CNF (Consiglio nazionale forense) è tra quelli più diffusi nei Tribunali e garantisce, quindi, la giusta identità di trattamento dei vari casi su gran parte del territorio nazionale. Le spese straordinarie indicate dal suddetto protocollo sono suddivise tra quelle obbligatorie, per cui non è richiesto il preventivo accordo dell’altro genitore (tenuto a rimborsarle pro quota), e quelle, invece, subordinate a tale accordo (benchè la giurisprudenza in materia, per lo più, ritenga legittime anche le spese eseguite senza consenso, laddove risultino, comunque, utili e necessarie per i figli). Tra le prime ricordiamo i libri scolastici, le spese sanitarie urgenti, l’acquisto di farmaci con presrizione medica e gli interventi chirurgici indifferibili. Le seconde, subordinate al consenso di entrambi i genitori, sono, a loro volta, suddivise in spese scolastiche , di natura ludica o parascolastica, sportive, medico sanitarie e per l’organizzazione di ricevimenti e festeggiamenti dedicati ai figli. Tra quelle scolastiche, in particolare, vogliamo ricordare le spese per il prescuola, doposcuola ed il servizio di baby sitting. Queste spese rientrano, secondo i casi, tra quelle ordinarie, comprese nell’assegno di mantenimento, o quelle straordinarie, extra assegno. Le spese per il prescuola ed il doposcuola sono comprese nell’assegno di mantenimento, in quanto ordinarie, allorchè siano già presenti nell’organizzazione familiare prima della separazione o conseguenti al nuovo assetto determinato dalla cessazione della convivenza, ma, in quest’ultimo caso, a condizione che si tratti di spesa sostenibile. Le spese per la baby sitter rientrano anch’esse tra le ordinarie quando erano già esistenti nell’organizzazione familiare prima della separazione. Sono considerate, invece, straordinarie laddove l’esigenza nasca con la separazione e debba coprire l’orario di lavoro del genitore che utilizza il servizio. Si evince, pertanto, come, in entrambi i casi, l’elemento discriminante, per cui ricomprendere le suddette spese tra quelle ordinarie o straordinarie, sia la circostanza che facessero già parte delle spese affrontate (anche occasionalmente, come può essere quella della baby sitter) durante la convivenza dei due genitori, ovvero, che non siano divenute necessarie a causa della separazione e del mancato contributo dell’altro genitore che, durante la convivenza, invece, avrebbe potuto evitare la spesa, occupandosi prsonalmente dei figli. Occorre, in pratica, fare un salto indietro nel tempo al periodo della convivenza dei genitori e chidersi se anche allora, nella stessa circostanza di oggi, sarebbe stato necessario ricorrere alla baby sitter o al prescuola o doposcuola per l’impossibilità dei genitori (per motivi, per lo più, di lavoro o salute) di occuparsi personalmente dei figli. In caso di risposta positiva, le relative spese saranno da considerarsi ordinarie (comprese nell’assegno di mantenimento), in quanto non potrebbero dirsi causate dalla separazione, essendo già necessarie durante la convivenza. In caso contrario, le spese dovranno, invece, considerarsi straordinarie (da rimborsarsi, pro quota, di volta in volta al coniuge che le ha eseguite), in quanto causate dalla separazione, considerato che in caso di convivenza non sarebbero state necessarie. Volendo fare un esempio pratico, se entrambi i genitori lavorano durante le medesime ore della giornata, è evidente che, sia prima che dopo la separazione, durante il loro normale orario di lavoro, possano avere la necessità, in mancanza di valide alternative, di affidare i figli ad un servizio di prescuola, doposcuola o alla baby sitter, non potendo tenerli con sé, perché entrambi impegnati. In tal caso, le spese non possono, certo, ritenersi straordinarie, ovvero causate dalla separazione, per la mancanza del sostegno da parte dell’altro genitore, che non avrebbe potuto dare comunque, neanche durante la convivenza. Essendo, quindi, spese già presenti e necessarie durante e nonostante la convivenza, sono da considearsi ordinarie e comprese, pertanto, nell’assegno di mantenimento. Se, invece, le stesse spese, si rendessero necessarie perché, ad esempio, uno dei genitori ha seri problemi di salute o deve rimanere a lavoro oltre l’orario normale, mentre l’altro, benchè libero da impegni lavorativi o altri impedimenti oggettivi (perché in ferie o ha già terminato il suo orario di lavoro), non vuole occuparsi personalmente dei figli (o non può comunque, perché, ad esempio, risiede in una città troppo distante), nè può indicare un’alternativa valida (come quella dei nonni o altri parenti disponibili), tali spese devono considerarsi straordinarie, in quanto causate dalla separazione. Infatti, se i genitori fossero ancora conviventi, quello libero tra i due, avrebbe potuto e dovuto occuparsi personalmente dei figli, essendo presente in casa. In tal caso, le spese non sono comprese nell’assegno di mantenimento, ma (debitamente documentate) devono essere rimborsate, pro quota, all’altro genitore che le ha sostenute. Gli altri due criteri di distinzione, ovvero, che si tratti di spesa sostenibile, nel primo caso, e che debba coprire l’orario di lavoro del genitore che lo utilizza, nel secondo, sono, certamente, secondari, Riguardo le spese per il prescuola ed il doposcuola, si vuole evitare che il genitore collocatario (convivente coni figli) debba accollarsi spese eccessive rispetto alle proprie possibilità economiche, certamente ridotte a seguito della separazione. Pertanto, in tal caso, tali spese sarebbero ritenute, comunque, straordinarie (per l’importo eccessivo, che impedisce di ricomprenderle nella somma dell’assegno di mantenimento). Riguardo le spese per la baby siter (che, a parere dello scrivente, sarebbero anch’esse da considerare, in ogni caso, straordinarie, laddove risultasero particolarmente alte), si vuole evitare il ricorso eccessivo a figure esterne ed estranee, nonchè ad una spesa ingiustificata, limitandola ai soli casi ritenuti limite, ovvero quando il genitore per motivi di lavoro (come di salute) non può stare con i figli ed occuparsene personalmente. In ogni altro caso, il genitore, che sia o meno il collocatario, dovrà occuparsi personalmente dei figli o ricorrere a proprie spese alla baby siter. Naturalmente, quando le spese in oggetto sono da ritenersi ordinarie, l’assegno menisile di mantenimento dovrà essere, comunque, adeguato per comprendere anch’esse nell’importo dovuto. San Salvo, 22 ottobre 2020 Avv.Vincenzo de Crescenzo
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SI PUÒ CHIEDERE L’ASPETTATIVA SUL LAVORO E/O CONSERVARE LA PARTITA IVA PER ACCETTARE UNA SUPPLENZA? Occorre, innanzitutto precisare che il diritto ad un periodo di aspettativa non retribuita, durante il quale, nonostante l’assenza, il dipendente conserva comunque il proprio posto di lavoro, è disciplinato dalla legge e dai singoli contratti collettivi (CCNL) dei vari settori ma, in ogni caso, viene riconosciuta al lavoratore solo in casi specifici. In particolare, la legge (L. 53/2000 e D.M. n. 278/2000) riconosce ai dipendenti, pubblici e privati, la possibilità di richiedere periodi di aspettativa dal lavoro non retribuita per gravi motivi familiari, nel limite di 2 anni (continuativi o frazionati) nell’arco dell’intera vita lavorativa; oppure per la formazione (scolastica o professionale), per un periodo non superiore ad undici mesi o per ricoprire cariche pubbliche e sindacali (Dlgs. n. 267/2000). Nel contratto del settore commercio è prevista la possibilità per i lavoratori di richiedere l’aspettativa non retribuita solo per gravi motivi familiari, con diritto alla conservazione del posto fino a due anni. Non è possibile, quindi, ottenere l’aspettativa per stipulare un altro contratto di lavoro (anche se a tempo determinato), non essendo tra le motivazioni per cui potrebbe essere concessa. Tale facoltà è, infatti, prevista solo per dipendenti pubblici che intendono avviare un’attività autonoma. Tuttavia, per il lavoratore assunto con contratto part-time , pur non essendo possibile richiedere l’aspettativa per altro lavoro, la legge non vieta la possibilità di stipulare un secondo contratto anch’esso part-time (che sia compatibile con il primo, soprattutto per gli orari di lavoro), consentendo lo svolgimento di un secondo lavoro, purché l’orario di lavoro complessivo non superi le 48 ore settimanali e sia rispettato almeno un giorno di riposo durante la settimana. Il limite massimo di 48 ore settimanali, tuttavia, deve essere calcolato come media in un periodo di riferimento non superiore a 4 mesi (che può essere elevato a 6 mesi dalla contrattazione collettiva), pertanto è possibile lavorare per più di 48 ore in una settimana, purché vi siano settimane con meno di 48 ore lavorative. Così come il riposo settimanale di 24 ore e quello giornaliero di 11 ore (per un totale di 35 ore) rappresentano una media su 14 giorni. Pertanto, non è possibile, in ogni caso (salvo per i dipendenti pubblici), chiedere l’aspettativa per altro lavoro, ma chi ha un contratto di lavoro part time, a differenza di quelli che lo hanno full time, può svolgere anche un secondo lavoro, alle condizioni su indicate. Detto ciò, nello specifico, riguardo le supplenze, occorre precisare che a nche i supplenti possono svolgere un secondo lavoro se, però, l'incarico scolastico non è superiore al 50% del monte ore complessivo. In caso contrario , è necessario (per univoca giurisprudenza) chiedere l'autorizzazione del Dirigente Scolastico. Naturalmente, il secondo lavoro deve essere, in ogni caso, part time e di natura privata , data l'incompatibilità fra due lavori nel comparto pubblico. R iassumendo: un dipendente privato non può chiedere l’aspettativa per altro lavoro, ma può accettare una supplenza, se ha già un contratto di lavoro part time, a condizione che gli orari di lavoro siano tra loro compatibili, non superino il limite delle 48 ore settimanali complessive e sia rispettato il giorno di riposo settimanale, purché l'incarico scolastico non sia superiore al 50% del monte ore complessivo (salvo chiedere, in tal caso, l'autorizzazione del Dirigente Scolastico). Riguardo, invece, la Partita Iva, ai sensi dell’art. 508 del Testo Unico sulla scuola (DL n. 297/1994) “Al personale docente è consentito, previa autorizzazione del dirigente scolastico, l‘esercizio di libere professioni che non siano di pregiudizio all’assolvimento di tutte le attività inerenti alla funzione docente e siano compatibili con l’orario di insegnamento e di servizio.“ Pertanto, si può continuare a svolgere la libera professione, che non sia, comunque, in conflitto con l’attività di insegnamento ( a tempo determinato o indeterminato), chiedendo , anche in questo caso, l’autorizzazione del dirigente scolastico, laddove l'incarico scolastico superi il 50% del monte ore complessivo. San Salvo, 25 ottobre 2023 Avv.Vincenzo de Crescenzo
L’ASSICURAZIONE PER LA CESSIONE DEL QUINTO DELLA PENSIONE Quando si stipula un contratto di credito con cessione del quinto della pensione è previsto, ex art. 54 del DPR n. 180/1950 , l'obbligo di stipulare anche un'assicurazione sulla vita, considerato il rischio che il debitore, per ragioni di età, non riesca a restituire l’intero credito ricevuto. Questa polizza per cessione del quinto, a copertura del credito erogato , cosiddetta Cpi (Credit Protection Insurance), è un contratto temporaneo causa morte, cioè dura quanto il finanziamento, comunque, non oltre 120 mesi, dopodiché non è più valida e perde ogni effetto. L'assicurazione, in genere, viene stipulata, a proprio beneficio, direttamente dall’Istituto di credito che, in qualità di contraente nonchè beneficiario, provvede anche al pagamento del premio assicurativo, che sarà incluso, tuttavia, nelle rate del finanziamento che il debitore dovrà pagare mensilmente. Si tratta, quindi, di una assicurazione contratta sulla persona di un terzo (il debitore) e a beneficio dello stesso contraente (l’Istituto di credito). In genere, il terzo non entra a far parte del rapporto assicurativo, essendo considerato solo come l’oggetto dell’interesse assicurato, tranne che nelle assicurazioni per il caso di morte, in cui è richiesto l’assenso del terzo alla conclsione del contratto (art. 1919 c.c.). L'assicurazione sulla vita è, giustamente, ritenuta necessaria in quanto, in caso di premorienza del debitore, quindi di insolvenza a causa del decesso, sarà l'Assicurazione a saldare l’intero debito residuo all’Istituto di credito , senza diritto di rivalsa sugli eredi, che risultano liberi da ogni obbligazione. Ne trae vantaggio, così, l’Istituto di credito , che è certo di recuperare le somme che le spettano, ma anche gli eredi del debitore, che non saranno tenuti al pagamento del debito del de cuius . Quindi, l’erogazione di un finanziamento con cessione del quinto è subordinata alla sottoscrizione di un contratto assicurativo rischio vita , che tutela sia l’ente erogatore nonché beneficiario sia i familiari del debitore, in quanto, in caso di morte di quest’ultimo, sarà l'assicurazione a rimborsare la banca il credito residuo , provvedendo all’estinzione completa e anticipata del prestito, salvo, però, alcune eccezioni. Ci sono, infatti, alcuni casi (i cosiddetti rischi esclusi o cause di esclusione) in cui, per legge o perché previsti dal contratto, l’Assicurazione può rifiutarsi di pagare quanto stabilito nella polizza vita. A riguardo va detto che, il contratto di assicurazione è un contratto cosiddetto aleatorio, con cui si assicura un rischio, cioè l’eventualità che si verifichi un evento dannoso che al momento della stipula del contratto non si sa ancora se, effettivamente, si verificherà o, come nella polizza vita, si sa che si verificherà (il decesso) ma non si sa quando. Più alto è il rischio che l’evento si verifichi o che si verifichi entro breve tempo, più alto è il premio che deve pagare l’assicurato. Quindi, con la polizza vita temporanea, in caso di finanziamento con cessione del quinto della pensione, si trasferisce alla compagnia di assicurazione il rischio che il debitore/assicurato muoia prima di poter estinguere il debito per il prestito ricevuto. In mancanza del rischio, ossia l’evento possibile o probabile a cui è collegata la prestazione dell’assicuratore, la polizza sarebbe nulla, mentre se il rischio fosse più alto o più basso di quanto dichiarato dall’assicurato all’atto della stipula della polizza, l’assicuratore potrebbe pretendere una modificazione della misura del premio o recedere dal contratto (artt. 1897 e 1898 c.c.). Detto ciò, veniamo ai casi concreti in cui la compagnia di assicurazione potrebbe rifiutarsi di pagare quanto stabilito dalla polizza vita. I casi previsti espressamente nella polizza vita sono, in genere, sempre gli stessi in ogni polizza, e in particolare: 1. il suicidio dell’assicurato nei primi 24 mesi dalla data di stipula, onde evitare che l’assicurato stipuli l’assicurazione sulla vita a scopo di frode; 2. la partecipazione dell’assicurato a eventi dolos i che ne hanno causato la morte (in tal caso non si intende soltanto la partecipazione a delitti veri e propri come ad esempio una rapina, ma anche casi di morte dovuti alla propria condotta, come ad esempio la morte per infarto mentre ci si trova su una scala, o il decesso dovuto alla partecipazione a eventi di guerra o ad attività sportive non dichiarate al momento della stipula). 3. Quando risultino importanti elementi di rischio clinico (ad esempio malattie gravi, tumori ecc.) che erano stati sottaciuti nell’autocertificazione al momento della stipula. Quest’ultimo motivo è ertamente il più importante. Infatti, al momento della stipula del contratto di prestito, l’assicurato/debitore deve rilasciare una dichiarazione in cui afferma di essere in buona salute, perché l’Assicurazione non copre il rischio morte quando risultano importanti elementi di rischio clinico sottaciuti nell’autocertificazione rilasciata al momento della stipula. Se nei mesi immediatamente successivi si verifica il suo decesso, l’Assicurazione può richiedere un approfondimento medico sui motivi del decesso e rifiutarsi di effettuare il rimborso se dall’esame emergono malattie gravi che erano già in essere al momento della stipula e di cui l’assicurato era a conoscenza. La polizza vita può, inoltre, prevedere altri casi di esclusione del rimborso: - quando la documentazione o parte di essa risulti falsa o falsificata; - quando le firme apposte sui documenti contrattuali, finanziari e assicurativi, risultino apocrife, non autentiche; - in caso di mancata erogazione del prestito; - in caso di invalidità, inefficacia o inesistenza del prestito. Ove ricorra una delle ipotesi di esclusione su indicate, il beneficiario della polizza assicurativa, ossia l’Istituto di credito, non avrà alcun diritto alla prestazione, quindi al rimborso del prestito, a cui saranno tenuti gli eredi del debitore deceduto, anziché la compagnia di assicurazione. L’unico modo per evitare di pagare il prestito del de cuius è rinunciare all’eredità o, in alternativa, accettare l’eredità con beneficio di inventario, limitando così l’obbligo di rimborso entro il valore dei beni ereditari. San Salvo, 31 luglio 2022 Avv. Vincenzo de Crescenzo
L’INFORTUNIO A CAUSA DI IMPRUDENZA DEL LAVORATORE In caso di infortunio sul lavoro, secondo giurisprudenza consolidata in materia, il datore di lavoro può ritenersi esente da ogni responsabilità, solo se, in ottemperanza all'obbligo di tutela delle condizioni di lavoro ex art. 2087 c.c., ha adottato tutte le misure di prevenzione idonee ad eliminare nella misura massima possibile anche i rischi derivanti da imprudenza, negligenza o imperizia del lavoratore. Pertanto, non può ritenersi responsabile dell’infortunio non solo quando la causa esclusiva dell’infortunio è riconducibile ad una condotta atipica ed eccezionale del lavoratore, ma anche quando ha adottato tutte le misure protettive possibili (vigilando sulla loro applicazione), comprese quelle esigibili in relazione al rischio derivante dalla condotta colposa del lavoratore. Le norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono, infatti, tese ad impedire l’insorgere di situazioni pericolose e tutelano il lavoratore anche dagli incidenti provocati dalla sua imperizia, negligenza ed imprudenza. La condotta negligente o imprudente del lavoratore, quindi, non è sufficiente, da sola, ad escludere la responsabilità del datore di lavoro, né può determinare un concorso di colpa da parte del lavoratore stesso, nel caso in cui vi sia un inadempimento del datore di lavoro nell’adozione di tutte le cautele richieste e necessarie, tipiche ed atipiche. In particolare, la giurisprudenza è concorde nel ritenere di dover escludere un concorso di colpa della vittima, allorchè il datore di lavoro abbia omesso di adottare le prescritte misure di sicurezza, oppure abbia impartito l'ordine da cui si è verificato l'infortunio, oppure abbia trascurato di fornire al lavoratore infortunato un’adeguata formazione ed informazione sui rischi lavorativi. In tutti questi casi, l'eventuale condotta imprudente del lavoratore diviene una mera occasione dell'infortunio e risulta giuridicamente irrilevante, salvo che non possa ritenersi del tutto atipica ed eccezionale rispetto alla prestazione dovuta e alle direttive ricevute, poichè, in tal caso, come abbiamo già detto, se fosse anche la causa esclusiva dell’evento dannoso, sarebbe sufficiente ad escludere la responsabilità del datore di lavoro. Precisiamo, tuttavia, che la responsabilità del datore di lavoro, ex art. 2087 c.c., ossia per non aver adottato tutte le misure di prevenzione possibili ad eliminare anche i rischi alla salute derivanti da imprudenza, negligenza o imperizia del lavoratore, non è un’ipotesi di responsabilità oggettiva, pertanto, richiede la prova, da parte del lavoratore, del fatto costituente l’inadempimento, della sussistenza del danno e del nesso causale tra questi due elementi. Non è necessaria, invece, la prova della colpa del datore di lavoro, essendo presunta ex art. 1218 c.c.. In conclusione, l'obbligo di tutela delle condizioni di lavoro (ex art. 2087 c.c.) non è adempiuto se le misure di prevenzione non sono idonee ad eliminare nella misura massima possibile anche i rischi derivanti da imprudenza, negligenza o imperizia del lavoratore. Nella predisposizione delle necessarie misure di sicurezza, il datore di lavoro deve tener conto anche delle condotte eventuali del lavoratore che, pur non essendo abnormi rispetto all’attività lavorativa da svolgere, non sono del tutto conformi ad essa, risultando imprudenti e rischiosi. San Salvo, 26 marzo 2022. Avv. Vincenzo de Crescenzo
DIFFERENZE RETRIBUTIVE Le ore di lavoro straordinario Uno degli argomenti più diffusi tra le controversie di diritto del lavoro, nonché, spesso, oggetto dei chiarimenti richiesti ai propri avvocati di fiducia, è quello delle differenze retributive non corrisposte in busta paga dal datore di lavoro. Ciò può acccadere, semplicemente, per errori di calcolo, oppure, ad esempio: a causa del riconoscimento di una retribuzione base inferiore a quella dovuta secondo il C.C.N.L. di categoria, oppure per un inquadramento contrattuale errato del lavoratore, per la mancata applicazione di scatti d’anzianità o il riconoscimento di una qualifica/livello inferiore a quella prevista dal C.C.N.L., e, così, per ogni altra somma dovuta e non corrisposta al lavoratore per la prestazione resa. In questa sede, parliamo, brevemente, delle ore di lavoro straordinario prestate dal lavoratore, essendo uno dei motivi più ricorrenti, sia nel lavoro pubblico che nel privato, delle controversie per differenze retributive, perchè spesso non riconosciute o utilizzate oltre quanto sarebbe consentito. Innanzitutto, precisiamo che il tetto massimo annuale di ore di straordinario (ammesso solo previo accordo con il lavoratore) è pari a 250 ore (salvo disposizioni più favorevoli dei CCNL di categoria) e si riferisce, in genere, ad un periodo mobile compreso tra un giorno qualsiasi dell’anno ed il corrispondente giorno dell’anno successivo, tenendo conto, tuttavia, delle disposizioni della contrattazione collettiva, che per lo più fanno riferimento all’anno civile (1° gennaio - 31 dicembre). In ogni caso, secondo la normativa nazionale (D.lgs n. 66 dell’8 aprile 2003), l’orario di lavoro non può superare, comprese le ore di lavoro straordinario, le 48 ore setimanali, di cui 40 ore di lavoro normale ed 8 ore di straordinario, da calcolarsi come media in un periodo non superiore a 4 mesi (i CCNL di categoria possono elevare detto limite fino a 6 o anche 12 mesi). Per stabilire, quindi, se viene prestato lavoro straordinario, si deve considerare il numero delle ore lavorate nel periodo preso come riferimento (4 mesi) e se la media delle ore lavorate supera il lmite settimanale delle 40 ore normali stabilite dalla legge, allora si è in presenza di lavoro straordinario. Oltre al lavoro straordinario esiste, però, anche quello cosiddetto supplementare, che è il lavoro prestato oltre l’orario normale previsto dai contratti collettivi, ma entro i limiti di legge (40 ore settimanali), retribuito, quindi, come orario d lavoro normale. Gli straordinari, invece, sono ore di lavoro in più che eccedono dal vincolo contrattuale tra datore e dipendente, per questa ragione meritano una retribuzione ulteriore secondo le maggiorazioni indicate nel contratto collettivo della categoria a cui si appartiene, che saranno, naturalmente, più consistenti in caso di lavoro straordinario festivo o notturno (l’attività svolta per almeno 7 ore consecutive tra la mezzanotte e le cinque del mattino). In un caso concreto, effettivamente prospettato allo scrivente, il lavoratore di una cooperativa, assunto dal giugno 2019, con contratto a tempo indeterminato, riferiva di aver svolto, da luglio 2019 al successivo mese di dicembre, 90 ore di lavoro straordinario (100 è il limite annuo, da contratto) ed altre 50 solo nel mese di gennaio 2020, arrivando a un massimo di 54 ore settimanali (da contratto il tempo pieno è 38). In tal caso, è evdente che, nell’arco dei primi quattro mesi di lavoro, si potrebbe già esaurire il limite annuo di 100 ore di straordinario consentito, pur rispettando quello settimanale di 48 ore (calcolo: 4 mesi x 4 settimane = 16 settimane x 48 ore = 768 ore; di cui 640 ore normali e/o supplementari e 128 ore di straordinario). Infine, occorre considerare che il lavoratore subordinato può richiedere il pagamento di quanto gli è dovuto entro un periodo determinato, oltre il quale il datore di lavoro può anche non pagarlo. I crediti per lavoro straordinario, in specie, sono soggetti, secondo la prevalente giurisprudenza in materia, alla prescrizione quinquennale di cui all’art. 2948, n. 4, c.c.. Il nostro ordinamento, infatti, fissa dei paletti temporali entro cui esercitare il nostro diritto, pena la sua prescrizione. Questo limite inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. Riguardo i crediti da retribuzione, il Codice Civile prevede due tipi di prescrizione: 1. La prescrizione breve o estintiva di cinque anni, per il reclamo delle differenze retributive (tra cui, come abbiamo visto, anche t crediti per lavoro straordinario) e, in 3 generale, per tutte le indennità spettanti al lavoratore per la cessazione del rapporto di lavoro (art. 2948 Cod. Civ.). 2. La prescrizione presuntiva di un anno o tre anni (artt. 2955 e 2956 Cod. Civ.): a) un anno per le retribuzioni pagate con cadenza non superiore al mese (il riferimento è soprattutto agli eventuali errori di calcolo della busta paga); b) tre anni per le retribuzioni corrisposte con cadenza superiore al mese (ad esempio la tredicesima mensilità, la quattordicesima e le altre retribuzioni aggiuntive). San Salvo, 234 novembre 2020 Avv.Vincenzo de Crescenzo
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