Avvocato del Foro di Milano, Co-fondatore con l'Avv. Gorgoglione del team "WR Milano Avvocati" con il quale ci occupiamo di diritto immobiliare e condominiale, nonchè di recupero del credito e responsabilità medica, Si laurea a pieni voti presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e presso lo stesso Ateneo consegue il diploma di specializzazione per le professioni legali. Autore di pubblicazioni su diverse riviste giuridiche, cura costantemente e con dedizione la propria formazione al fine di contribuire alla diffusione del sapere giuridico.
Il nostro team si occupa di problematiche che investono il Condominio, prestando assistenza in favore: dei Condomini, degli amministratori e dei singoli condomini. Ci occupiamo in particolare di vertenze legate all'impugnazione di delibere assembleari, sia di contenzioso relativo all'utilizzo di parti comuni (es: decoro architettonico, immissioni), nonché di questioni relative al rispetto del regolamento condominiale. Il nostro team si occupa, inoltre, di problematiche che coinvolgono la figura dell'amministratore (es: recupero del credito e delle anticipazioni, revoca e nomina anche giudiziale dell'amministratore).
Il nostro team si occupa con frequenza di azioni di sfratto, generalmente in favore della proprietà, in particolare sia della fase della convalida, sia del recupero del credito, sia dell'esecuzione per consegna e rilascio. Ci occupiamo, altresì, delle azioni ex art. 609 c.p.c. di sgombero dell'immobile non rilasciato libero da cose al temine del rapporto locatizio.
Il nostro team si occupa di contrattualistica in materia locatizia sia in favore di privati sia di imprese che operano nel settore immobiliare, seguendo al contempo il contenzioso correlato al rapporto locatizio, come il recupero del credito, le azioni di sfratto e le azioni risarcitorie.
Malasanità e responsabilità medica, Recupero crediti, Diritto immobiliare, Diritto aeronautico, Diritto civile, Mediazione, Diritto dei trasporti terrestri, Eredità e successioni, Diritto assicurativo, Pignoramento, Diritto del lavoro, Mobbing, Sicurezza ed infortuni sul lavoro, Licenziamento, Diritto penale, Violenza, Stalking e molestie, Reati contro il patrimonio, Diritto penitenziario, Edilizia ed urbanistica, Negoziazione assistita, Risarcimento danni.
Uno dei temi maggiormente controversi è la legittimità dell'addebito delle stesse previsto nel rendiconto consuntivo. Il Condominio infatti può addebitare spese personali qualora rispondano al principio di " utilizzazione differenziata " (art. 1123 co 2 c.c.) del bene comune, tuttavia in tale caso l'addebito personale sarebbe legittimo e non qualora lo stesso rappresenti una forma di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Molteplici sono invece i casi in cui tale addebito di spese di non sarebbe legittimo: Riparazioni per danni causati dal condomino In tale ipotesi non può considerarsi legittima la delibera con cui l'assemblea addebiti le eventuali riparazioni effettuate sulle parti comuni o sulle unità private senza che vi sia un accertamento giudiziale, l'addebito infatti costituirebbe una forma di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. (In tal senso T. Milano sent. 3332 del 3.4.2019) Opere eseguite su parti private Secondo la Cassazione (sent. 305 del 12.1.2016) è nulla la delibera che preveda il riparto di spese su parti private (es il pavimento dei balconi) ciò per eccesso di potere, in quanto in linea generale l'assemblea non può assumere decisioni impattanti sulla proprietà del singolo. Acquisizione di informazioni per completare il registro anagrafico In assenza di collaborazione da parte del condomino, è legittimo l'addebito della spesa da parte dell'amministratore relativamente alle spese sostenute per le ricerche anagrafiche. Spese legali Secondo la Cassazione (sent. 751 del 18.1.2018) è nulla la delibera che pone a carico del singolo condomino le spese legali, prima che queste vengano accertate giudizialmente. Comunicazioni e chiarimenti dell'amministratore Le comunicazioni a chiarimento correlate a comunicazioni ordinarie o straordinarie potrebbero essere inquadrate tra le spese personali addebitabili, dovendo però valutarsi la natura dell'attività resa e se quindi la stessa corrisponda al principio di utilizzazione differenziata del servizio in favore del singolo. Fermo restando quanto sopra, merita uno spunto di riflessione l'effetto che avrebbe il voto favorevole del condomino che contesti la spesa personale a suo carico. Nelle ipotesi di nullità, infatti, il rendiconto è sempre impugnabile anche in caso di voto favorevole; tuttavia, in assenza di impugnazione, si potrebbe ritenere che l'approvazione espressa con voto favorevole e la mancata successiva impugnazione possa valere quale riconoscimento di quel debito specifico. In punto di riconoscimento di debito l'interpretazione non può però considerarsi univoca. WR Milano Avvocati
Ai fini della costituzione del Supercondominio non è necessaria né la manifestazione di volontà dell'originario costruttore, né quella di tutti i proprietari delle unità immobiliari di ciascun condominio, venendo il medesimo in essere per ragioni di fatto se il titolo o il regolamento condominiale non dispongono altrimenti. Si tratta quindi di una situazione di fatto, di condivisione di parti comuni tra più Condomini, in cui si applicano in pie no le norme sul condominio anziché quelle sulla comunione. Questo è quanto confermato dal Tribunale di Roma con sentenza 19411/2018 in linea con i precedenti orientamenti giurisprudenziali di legittimità e di merito. WR Milano Avvocati
Si ritiene innanzitutto opportuno verificare se il regolamento comunale prevede delle restrizioni alle quali chiaramente non è possibile derogare. E’ poi altresì opportuno poi esaminare il regolamento condominiale, che ha valore contrattuale tra il condominio ed il Condominio, e che potrebbe prevedere dei divieti espressi ed eventuali sanzioni. In assenza dei suddetti limiti bisogna poi considerare il decoro architettonico in generale, e quindi tener conto dell’estetica della facciata e dell’eventuale presenza di altri apparecchi. A tal fine è sempre opportuno ottenere un’autorizzazione da parte dell’assemblea, in modo da evitare problemi in un secondo momento. E’ poi doveroso, secondo una parte della giurisprudenza di merito, considerare la distanza verticale tra l’apparecchio e la soglia delle finestre degli altri condomini, distanza che deve essere di almeno 3 metri. Infine bisogna assolutamente evitare lo stillicidio verso le altre unità immobiliari, rispetto al quale, secondo la Giurisprudenza, lo scarico nel pluviale condominiale non è legittimo. WR Milano Avvocati
Ci si interroga spesso sulla validità della convocazione a mezzo posta elettronica ordinaria. A tal proposito l'art. 66 disp. att. c.c. è tassativo nell'indicare che l'avviso di convocazione debba essere trasmesso a mezzo: posta raccomandata, pec, consegna a mani, fax, il tutto almeno 5 giorni prima dell'assemblea. Tuttavia, la giurisprudenza ha ritenuto ammissibile la convocazione a mezzo posta elettronica ordinaria a determinate condizioni: - in caso di prova della ricezione, ad esempio mediante conferma espressa (Tribunale Tivoli 5.4.22); - in caso di espresso assenso preventivo del condomino alle convocazioni a mezzo posta elettronica ordinaria (Corte D'Appello di Brescia 4/2019); - in caso di non contestazione della ricezione dell'e-mail ordinaria (Tribunale di Roma sent. 17727/21); Per cui, sebbene la convocazione a mezzo posta elettronica ordinaria non possa considerarsi vietata, è opportuno considerare che, in caso di impugnazione della delibera, per poter considerare valida la convocazione stessa, questa dovrà rispettare una delle condizioni pocanzi esposte. WR Milano Avvocati
Per attivare una richiesta di risarcimento danni per decesso da coronavirus dovrà essere preliminarmente e attentamente valutata da un medico legale, preferibilmente coadiuvato da un esperto infettivologo, l’intera documentazione sanitaria del paziente deceduto. L'analisi e lo studio della documentazione avrà il fine di comprendere, innanzitutto, la genesi del contagio e confermare, eventualmente, che l’infezione da Covid-19 è avvenuta durante il ricovero presso la struttura sanitaria (ospedale, casa di cura o RSA) in ragione della/e condotta/e negligente, e/o imperita, e/o imprudente del personale ivi operante. Una volta determinato il momento del contagio, si dovrà stabilire, ove possibile, se lo stesso si è realizzato per il mancato rispetto da parte della struttura e del personale sanitario addetto, delle necessarie misure di prevenzione e contenimento della diffusione dell’infezione da Covid-19. Dovrà infine essere accertato che il decesso del paziente è stato causato o concausato dalle complicazioni dell’infezione da coronavirus. Andrà ad esempio ove possibile accertato se il personale sanitario: - era stato dotato dei dispositivi di protezione individuale; - era stato sottoposto a periodico monitoraggio con tampone; - se i pazienti positivi erano stati isolati all’interno della struttura, e se per essi erano stati previsti percorsi dedicati; - se era stato disciplinato l’accesso alla struttura da parte del personale non dipendente; - se e come veniva eseguita la sanificazione ambientale. Ciò premesso, solo a fronte di comprovate inadempienze si può pensare di procedere con un’azione legale giacchè non si può utilizzare il sistema della giustizia solo per “tentare” di ottenere ristoro dalla perdita del proprio caro. In tema di risarcimento dei danni, sarà possibile agire in sede penale, costituendosi parte civile, ma soprattutto in sede civile agendo direttamente contro la struttura incriminata. Avv. Walter Massara WR Milano Avvocati
La Suprema Corte di Cassazione, con la recente sentenza 8756/2019, ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno ad una paziente che si era sottoposta ad un intervento di lifting e che non era stata adeguatamente informata dal chirurgo plastico sulle possibili complicanze operatorie ribadendo il principio di diritto, già consacrato in precedenti pronunce, secondo cui “… la correttezza o meno del trattamento non assume alcun rilievo ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato, in quanto è del tutto indifferente ai fini della configurazione della condotta omissiva dannosa e dell’ingiustizia del fatto, la quale sussiste per la semplice ragione che il paziente, a causa del deficit di informazione non è stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni…” Nelle motivazioni i Giudici di legittimità sottolineano come qualsiasi trattamento sanitario, ove eseguito senza la previa prestazione di un valido consenso, avvenga in violazione degli artt. 32, II° comma e 13 della Costituzione (a norma dei quali, rispettivamente, nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge e ognuno ha diritto all’inviolabilità della libertà personale con riferimento alla salvaguardia della salute e dell’integrità fisica) nonché dell’art. 33 della Legge 833/1978, che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente se questi è in grado di prestarlo e non ricorrano i presupposti dello stato di necessità. Pertanto il diritto al consenso informato del paziente, in quanto diritto irretrattabile della persona, va sempre e comunque rispettato dal sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza, rinvenuti a seguito di un intervento concordato e programmato, per il quale sia stato richiesto ed ottenuto il consenso, e tali da porre in gravissimo pericolo la vita della persona, o laddove si tratti di trattamento sanitario obbligatorio. Tale consenso è inderogabile sicchè non assume alcuna rilevanza, al fine di escluderlo, il fatto che l’intervento sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che, a causa del “deficit” di informazione, il paziente non è posto in condizione di assentire al trattamento, consumandosi nei suoi confronti, comunque, una lesione di quella dignità che connota l’esistenza nei momenti cruciali della sofferenza fisica e/o psichica. Pertanto, nell’interpretazione degli Ermellini la correttezza o meno del trattamento non assume rilievo ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato; la condotta omissiva dannosa e l’ingiustizia del fatto sussistono per la semplice ragione che il paziente, a causa del deficit informativo, non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà libera e consapevole. Avv. Walter Massara WR – Milano Avvocati
Ci si interroga spesso sulla responsabilità dell'agente immobiliare in caso di preliminare risolto a seguito dell'accertamento di irregolarità che interessano l'immobile. Il mediatore è infatti tenuto a fornire alle parti le informazioni opportune (conosciute o conoscibili) prima del perfezionamento dell'affare. Sul punto l 'art. 1759 c.c. prevede che il mediatore debba comunicare alle parti le circostanze a lui note relative alla valutazione e alla sicurezza dell'affare che possono influire sulla conclusione dello stesso. Allo stesso tempo, secondo un costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, il mediatore deve informare le parti sulle circostanze a lui conoscibili con la media diligenza professionale (Cass. 784/2020, ex multis Cass. 29229/2019, 4415/2017). Per cui ad esempio il mediatore che fosse già a conoscenza dell'insolvibilità di una delle parti, dovendo fornire le informazioni " influenti sulla sicurezza dell'affare ", potrebbe essere ritenuto responsabile per non aver informato la controparte prima di fargli versare la caparra (Cass. 20512/2020). Allo stesso tempo, secondo il mediatore ha l'obbligo in negativo di non dare rassicurazioni e informazioni in merito a circostanze a lui non note o da lui non verificate . Per cui ad esempio il mediatore non potrà tranquillizzare le parti circa l'assenza di gravami (ipoteche, pignoramenti) senza aver prima verificato l'assenza degli stessi. Il mediatore in ogni caso non ha l'obbligo di effettuare delle verifiche di carattere tecnico-giuridico , come ad esempio le ispezioni ipotecare o la regolarità urbanistica dell'immobile (come detto sopra vi è tenuto però se rassicura personalmente le parti su aspetti tecnici) , salvo una diversa e specifica pattuizione tra le parti (in tal senso Cass. 18140/2015); tuttavia, in base a quanto detto pocanzi, non potrà riferire alla parte acquirente che l'immobile è libero da vincoli senza averlo prima verificato (dichiarazione che invece potrebbe fare il venditore stesso). Nei suddetti casi , in presenza quindi di una responsabilità dell'Agente immobiliare, lo stesso non solo non avrebbe il diritto alla provvigione richiesta, ma sarebbe tenuto al contempo a risarcire il danno patito e provato dalla parte lesa dal mancato rispetto degli obblighi gravanti sul professionista. WR Milano Avvocati
La Cassazione Sezione Penale ha ritenuto configurabile una responsabilità del personale di ostetricia ove, in presenza di una sofferenza fetale, lo stesso ometta di contattare tempestivamente il medico di turno, limitandosi a contattare il medico privato della paziente. Nel caso di specie, le ostetriche hanno omesso di contattare il medico di turno presente presso la struttura sanitaria, mentre, secondo la Corte, appena emersi i fattori di rischio per la madre e per il nascituro avrebbero dovuto sollecitare tempestivamente l’intervento del professionista ivi presente, non potendo attendere il medico privato della gestante. La Cassazione ha quindi enunciato che: “La giurisprudenza di questa Corte è uniforme nell’affermare che integra il delitto colposo di interruzione della gravidanza la condotta dell’ostetrica che, incaricata di eseguire un tracciato cardio-tocografico all’esito del quale si evidenzi un’anomalia cardiaca del feto, ometta di informare tempestivamente il medico di turno, sempre che la violazione della regola cautelare, consistente nella richiesta di intervento immediato del sanitario, abbia cagionato o contribuito significativamente a cagionare l’evento morte”. In ogni caso, la Corte non ha ritenuto sussistente una responsabilità delle ostetriche nel caso di specie per carenza del nesso causale, in quanto, se pure il trasferimento in un ospedale attrezzato sia avvenuto tardivamente (integrando così una condotta colposa), non è detto (oltre ogni ragionevole dubbio) che il ritardo sia stato decisivo nella causazione dell’evento dannoso. Team WR Milano Avvocati
La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza 243 del 2017, si è recentemente espressa sul caso di una donna che ha dato alla luce un bambino con sindrome di Down, dichiarando responsabile il medico specialista per non aver prescritto l’amniocentesi. Il ginecologo, cui la donna si era rivolta durante la gestazione per conoscere le condizioni del feto che portava in grembo, non le aveva prescritto il prelievo del liquido amniotico (ndr., l’amniocentesi), ragion per cui la neomamma aveva scoperto che il suo bambino era affetto da trisomia 21 solamente dopo il parto. L’operato del medico ha quindi precluso alla paziente la possibilità di conoscere preventivamente le condizioni del feto. Dagli atti del processo emerge come il ginecologo non avesse prescritto alla ricorrente l’amniocentesi, inadempimento che avrebbe impedito alla paziente la possibilità di scelta circa la prosecuzione della gravidanza. Due mesi dopo, in occasione di ulteriori controlli in un’altra struttura ospedaliera, la donna aveva rifiutato di sottoporsi all’amniocentesi in quanto precedentemente rassicurata dal suo ginecologo sulle regolari condizioni della gravidanza stessa. Anche se dagli atti si evince che la donna in ogni caso non avrebbe abortito, il danno che denunciava la ricorrente verteva nell’effetto “sorpresa” che ha avuto nel momento in cui è venuta a conoscenza delle condizioni del suo bambino. Effetto che le avrebbe causato dei problemi di natura psico-fisica. La donna, infatti, a seguito dell’occorso avrebbe sofferto di una nevrosi ansioso-depressiva. All’esito del giudizio di legittimità, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dalla Signora contro la sentenza n.255/2013 della Corte d’Appello di Catania, ha annullato la sentenza impugnata e richiesto l’elaborazione di una nuova decisione sulla base di nuovi principi di diritto. L’interpretazione ermeneutica seguita dagli Ermellini a definizione del procedimento indicava come il danno alla salute fisica e mentale dovuto all’effetto sorpresa che la donna lamentava era una conseguenza della “perdita della chance” di conoscere in precedenza lo stato della sua gravidanza. E una parte di tale danno era dovuta all’inadempimento del ginecologo. Avv. Walter Massara Team - WR & Parners
Con una recente e interessante sentenza - la n. 8243 del 24 luglio 2017 - il Tribunale di Milano ha affrontato più questioni in materia di responsabilità medica. Nel caso di specie, una donna, con l’intenzione di migliorare ed aumentare l’aspetto del proprio seno, si sottoponeva a un intervento di chirurgia estetica (mastoplastica additiva), a seguito del quale però lamentava una sensazione di anestesia alle areole che durava a lungo e che, a suo dire, aveva determinato diverse complicanze durante la gravidanza e il parto nonché disagi in ambito sessuale e psicologici. Deduceva altresì che lo specialista cui si era rivolta aveva proceduto ad effettuare l’operazione senza offrire una adeguata descrizione della tipologia dell’intervento né delle possibili conseguenze, anche negative. Perciò agiva in giudizio nei confronti del chirurgo e della struttura sanitaria privata presso cui era stata operata, domandandone la condanna al risarcimento dei danni “… derivanti dalla mancanza di consenso informato oltre che dalla insensibilità provocata”. Il giudice – dopo aver richiamato, in via generale, il consolidato orientamento della Suprema Corte circa la distribuzione dei carichi probatori e la logica cui risponde l’accertamento del nesso di causalità nei giudizi riguardanti la responsabilità civile nell’attività medico-chirurgica, ovvero il criterio del “più probabile che non” – osserva, con particolare riferimento alla chirurgia estetica, che, “… a prescindere dalla qualificazione dell’obbligazione in esame come di mezzi o di risultato … (cfr. sul punto Cass. 10014/1994 che propende per la qualificazione come obbligazione di risultato e Cass. 12253/1997 che qualifica l’obbligazione del chirurgo estetico come obbligazione di mezzi), … è indubbio che chi si rivolge ad un chirurgo plastico lo fa per finalità spesso esclusivamente estetiche e, dunque, per rimuovere un difetto, e per raggiungere un determinato risultato, e non per curare una malattia. Ne consegue che il risultato rappresentato dal miglioramento estetico dell’aspetto del paziente non è solo un motivo, ma entra a far parte del nucleo causale del contratto, e ne determina la natura”. Il Tribunale, giungendo ad esaminare in concreto il caso, condivide le risultanze cui è pervenuta la consulenza tecnica d’ufficio – la quale, oltretutto, evidenzia come l’intervento sia stato eseguito a regola d’arte e la sintomatologia e la disestesia (a distanza di otto anni dall’intervento) siano “sfumate”, affermando poi con netta evidenza che “… comunque, al di là di un vissuto soggettivo e della visita specialistica, non esiste agli atti alcuna documentazione oggettiva di tale lesione nervosa” –, quindi esclude la responsabilità del medico. La responsabilità del chirurgo estetico viene dal Tribunale esclusa anche in ordine alla dedotta lesione del diritto al consenso informato, dal momento che parte attrice non ha assolto all’onere della prova sulla stessa gravante e, d’altro canto, il convenuto ha provato l’adempimento relativo all’obbligazione di compiutamente informare l’attrice dei rischi e delle complicazioni legate all’intervento eseguito. Il giudice, nelle motivazioni dell’arresto di merito, ha affermato che “… la mancata richiesta del consenso costituisce autonoma fonte di responsabilità qualora dall’intervento scaturiscano effetti lesivi per il paziente, per cui nessun rilievo può avere il fatto che l’intervento medesimo sia stato eseguito in modo corretto … ” (così Cass., n. 9374/1997) – ed ha avuto modo così di precisare, relativamente all’onus probandi, che “… grava sul paziente l’onere di dimostrare: i) la sussistenza del nesso causale tra la lesione del suo diritto alla autodeterminazione e la lesione della salute derivante da una prevedibile conseguenza di un intervento chirurgico correttamente eseguito ma non correttamente assentito dal paziente (dovendo il paziente provare, anche mediante presunzioni, che ove adeguatamente informato avrebbe rifiutato l’intervento); ii) la sussistenza del danno derivante dalla mancata informazione, danno declinabile sia in termini di lesione del diritto alla salute (per le conseguenze invalidanti derivate dall’intervento) sia in termini di lesione del diritto all’autodeterminazione (purché ne sia derivato un pregiudizio non patrimoniale di apprezzabile entità)…” Per le ragioni innanzi esposte la domanda non è stata accolta. Avv. Walter Massara Team WR Milano Avvocati
Con la recentissima ordinanza n. 10158 del 27 aprile 2018, la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alla responsabilità del medico radiologo in caso di mancata o tardiva diagnosi di tumore al seno. Più precisamente, con l’arresto in commento, gli Ermellini hanno affermato il principio di diritto secondo cui il radiologo che effettua una mammografia non è responsabile di una diagnosi tardiva di carcinoma mammario. Al sanitario infatti compete di eseguire l’esame e offrirne l’interpretazione corretta, ma non è egli a dover consigliare approfondimenti diagnostici o chiedere il consulto di altri specialisti ai quali, invece, si sarebbe dovuta affidare la paziente per una valutazione clinica completa. I fatti. Una paziente affetta da tumore al seno conveniva in giudizio due medici-radiologi e l’azienda ospedaliera di cui erano dipendenti, al fine di ottenere il risarcimento del danno conseguente alla tardiva diagnosi di carcinoma mammario. La donna, poi deceduta nel corso del giudizio, si era sottoposta, alla fine degli anni ’90, a varie mammografie senza che i radiologi che avevano effettuato gli esami le avessero consigliato ulteriori approfondimenti o indagini suppletive per diagnosticare la neoplasia da cui era affetta. La domanda risarcitoria della paziente, nel corso del giudizio operata per la rimozione del tumore e delle metastasi, derivava dalla mancata esecuzione degli approfondimenti assolutamente necessari ed ineludibili, ai fini di una diagnosi corretta ed esaustiva, non richiesti o consigliati dai radiologi che avevano effettuato gli esami. La richiesta pecuniaria era stata rigettata in primo grado dal Tribunale di Crema e e all’esito del gravame di merito dalla Corte d’Appello di Brescia; tale ultima pronuncia veniva infine impugnata con ricorso per Cassazione. All’esito del giudizio legittimità, l’ordinanza della Suprema Corte, dichiarando inammissibile il ricorso e rigettando dunque ulteriormente la pretesa risarcitoria, si fonda sulla seguente linea interpretativa: la condotta posta in essere dai sanitari resistenti non è censurabile poichè essi, quali medici radiologi (e, dunque, non clinici e neppure chirurghi), non avrebbero potuto sostituirsi a questi ultimi, non rientrando nei loro compiti l’onere di visitare la paziente, anche in considerazione delle difficoltà e delle insidie che comporta la branca della senologia mammaria: in sostanza, l’esame mammografico, non accompagnato da ulteriori indagini diagnostiche, non era sufficiente alla formulazione di una diagnosi senologica corretta, poichè avrebbe dovuto essere preceduto o seguito dalla valutazione clinica da parte dello specialista, senologo od oncologo, cui, nel caso di specie, la donna aveva ritenuto di non doversi rivolgere, anche se ciò avrebbe probabilmente consentito una diagnosi più precoce del tumore. Con la pronuncia in esame, dunque, la Suprema Corte ha delineato una rigorosa separazione dei ruoli tra medici specialisti (senologi, chirurghi ed oncologi) e medici-radiologi, individuandone lo specifico campo di competenze, attribuzioni e responsabilità e sancendo che i sanitari resistenti, nella propria qualifica professionale di radiologi, erano per ciò solo chiamati ad eseguire la mammografia e a darne corretta lettura, non rientrando nelle loro mansioni suggerire lo svolgimento di altri esami o richiedere un consulto di altri specialisti. All’assunto conseguiva che la mancata esecuzione dell’approfondimento diagnostico non poteva essere loro imputato con esclusione quindi della sussistenza del nesso di causalità tra condotta professionale ed evento letale. Avv. Walter Massara Avv. Ruggiero Gorgoglione Team WR & Partners, Milano - Italia, Avvocati
A seguito dei provvedimenti restrittivi adottati dai Governi per l’epidemia Covid-19 molti voli nazionali e internazionali sono stati cancellati e quindi correttamente rimborsati dalle compagnie aeree con una semplice richiesta sul portale del vettore. Tuttavia, alcune società non hanno cancellato alcune partenze rifiutandosi di rimborsare il prezzo corrisposto dagli utenti, nonostante le restrizioni al traffico e alla circolazione impedissero ai cittadini di mettersi in viaggio. Si ritiene che il rifiuto del rimborso non sia una condotta corretta considerate le previsioni nazionali e internazionali sulla limitazione alla circolazione. Si ritiene quindi che i voli programmati successivamente ai decreti limitativi di marzo e aprile debbano essere comunque rimborsati. Tale fattispecie infatti potrebbe essere ricondotta all’impossibilità sopravvenuta della prestazione cui consegue il dovere di rimborsare quanto già corrisposto dall’utente. WR Milano Avvocati
1. Nozione. Le residenze sanitarie assistenziali sono strutture sanitarie residenziali gestite da soggetti pubblici o privati, organizzate per nuclei e finalizzate a fornire ospitalità, prestazioni sanitarie, assistenziali, di recupero funzionale e di inserimento sociale nonché di prevenzione dell’aggravamento del danno funzionale per patologie croniche nei confronti di persone non autosufficienti, non assistibili a domicilio e che non necessitano di ricovero in strutture di tipo ospedaliero o nei centri di riabilitazione. Nelle R.S.A., che vengono gestite dalle aziende sanitarie locali o dalle unità di cura con esse convenzionate, sono ospitate: a) persone non più in età evolutiva portatrici di alterazioni morbose stabilizzate o morfo-funzionali, che hanno superato la fase acuta della malattia e per le quali è stato compiuto un adeguato trattamento terapeutico o di riabilitazione di tipo intensivo, ma che abbisognano di trattamenti terapeutici e riabilitativi protratti nel tempo; b) soggetti anziani che presentano patologie cronico-degenerative, ma che non necessitano di assistenza ospedaliera, ivi compresi i soggetti affetti da patologie psico-geriatriche (demenza senile); c) persone adulte colpite da handicap di natura fisica, psichica o sensoriale in condizioni di non autosufficienza o affette da malattie croniche; d) soggetti adulti portatori di disturbi psichiatrici in condizione di non autosufficienza o affetti da malattie croniche, per le quali sia stata esclusa la possibilità di utilizzare altre soluzioni terapeutico-assistenziali.Le R.S.A., al fine di assicurare alle persone ospiti le prestazioni più adeguate in rapporto alle loro condizioni di disabilità e di dipendenza, sono generalmente strutturate, in termini organizzativi e di dotazione di personale, in funzione delle seguenti aree di intervento, corrispondenti alle diverse aree problematiche e di bisogno: a) area della senescenza, riferita a persone anziane con temporanea, totale o prevalente limitazione della propria autosufficienza, con particolare riguardo alle persone affette da malattie croniche; b) area della disabilità, riferita a persone portatrici di handicap funzionale, io condizioni di notevole dipendenza, anche affette da malattie croniche; c) area del disagio mentale riferita a soggetti portatori di disturbi psichici, in condizioni di notevole dipendenza, anche affette da malattie croniche. 2. Inquadramento della questione nel quadro dell’emergenza da Covid-19. Le strutture residenziali per anziani rappresentano contesti particolarmente esposti al rischio di infezione da coronavirus SARS-Cov-2, poiché gli anziani ospiti sono generalmente più vulnerabili alle malattie infettive rispetto alla popolazione generale per la concomitante presenza di fattori di rischio rappresentate dall’età e dalla probabile comorbilità pregressa. Gli ospiti delle Rsa sono vulnerabili all’infezione Covid-19 perché, oltre a presentare patologie di base, acute o croniche, spesso multiple, hanno stretti contatti con altre persone (i loro caregiver) e gli altri ospiti e trascorrono pressochè integralmente il loro tempo in un ambiente chiuso con pazienti parimenti vulnerabili. Inoltre, la presenza di ospiti con deterioramento cognitivo può rendere difficile ai sanitari l’applicazione delle precauzioni di contatto e di isolamento. Ed ancora, la facilità di trasmissione agli operatori (e dal personale agli stessi ospiti) nelle strutture residenziali per anziani è esacerbata dalla necessità di uno stretto contatto fisico con gli ospiti durante le attività di igiene personale, mobilizzazione, aiuto nell’alimentazione. Infine, per i familiari i gesti di affetto e la consueta vicinanza fisica possono favorire la trasmissione dell’infezione dagli uni agli altri; per i volontari le attività abitualmente loro affidate quali fare compagnia, aiutare nella somministrazione dei pasti possono ugualmente favorire la trasmissione dell’infezione interpersonale. Già dal mese di Febbraio 2020, le strutture anzidette avrebbero dovuto approntare le dovute misure preventive; più specificamente, preparare uno specifico piano d’azione onde evitare o quantomeno attenuare la trasmissione del Covid dagli infetti, garantendo la protezione dei pazienti e degli operatori sanitari ivi operanti. In altri termini, un piano volto a prevenire e controllare l’infezione, a formare ed addestrare il personale ed ovviamente a proteggere operatori ed ospiti (ad esempio, tracciando ed isolando i contagiati, sanificando frequentemente le strutture e suddividendole in aree operative separate - un nucleo o reparto, un piano, utilizzando anche barriere fisiche mobili - per evitare che gli ospiti si spostassero al di fuori dell’area ad essi riservata). Va valutato se tale piano preventivo sia stato redatto ed osservato, alla luce del fatto che nelle Rsa italiane, dall’inizio dell’epidemia sono deceduti oltre settemila pazienti, il 10% circa con tampone positivo, ma la metà dei quali con sintomi riconducibili all’infezione da SARS-Cov-2. 3. Le fattispecie di reato astrattamente configurabili. Qualsiasi valutazione prognostica in ordine alla natura delle responsabilità che potrebbero essere configurate pecca inevitabilmente di astrattezza, in quanto svincolata dal confronto con il caso concreto e le sue specificità. A valle di questa doverosa precisazione, si può ragionevolmente confidare nel fatto che i terreni d’elezione delle possibili responsabilità in discorso siano quelli del titolo colposo e della causalità omissiva. Provando a semplificare, nei casi di decesso o lesioni da Covid-19, l’infezione agirà come causa primaria dell’evento, a fronte del quale eventuali responsabilità potrebbero essere ipotizzate con riferimento all’omissione di condotte adeguate a prevenirlo; omissione caratterizzata da imprudenza, negligenza o imperizia (colpa generica), ovvero dalla violazione di specifici codici comportamentali o norme cautelari. Si tratta, in altre parole, del terreno tipico della colpa medica che trova nell’omicidio colposo e nelle lesioni colpose, e dunque nel vigente art. 590 sexies c.p., le proprie fattispecie di riferimento. In questa prospettiva qualche dubbio può sorgere rispetto all’individuazione dell’evento nel caso di lesioni, ovvero nel caso in cui il decorso dell’infezione non conduca ad esiti infausti. Questo perché, a seconda della prospettiva, l’evento lesioni potrebbe essere identificato alternativamente: - col periodo di degenza procurato dalla malattia (lesione consistente nella malattia per tutta la durata della degenza, grave o lieve a seconda della medesima); - con le conseguenze post-infezione senza esito infausto (conseguenze queste ultime che scontano, al momento, un importante e forse decisivo deficit di informazioni disponibili, nel senso che non si conosce se e quali effetti negativi sulla salute del paziente possano residuare in seguito all’infezione da COVID-19 superata); - con la contrazione stessa dell’infezione da parte della persona offesa, sempre che in ipotesi sia dipesa da una qualche condotta omissiva, come – ad esempio – la mancata predisposizione o il mancato utilizzo di dispositivi di protezione individuale. In quest’ultimo caso – lesione consistente nella contrazione stessa dell’infezione, in ipotesi dovuta al mancato utilizzo di presidi adeguati – occorre tuttavia osservare che il confine con la diversa e più grave fattispecie di epidemia colposa di cui all’art. 452 c.p. appare fin troppo labile, a meno che non si proietti su un terreno meramente quantitativo, ovvero del numero delle infezioni causate dalla negligenza nell’utilizzo di strumenti di protezione: la trasmissione individuale come lesione colposa; la trasmissione ad un numero più ampio di persone come equivalente della diffusione colposa di agenti patogeni rilevante alla stregua dell’epidemia colposa ex art. 452 c.p. Chiaramente l’interazione tra queste diverse fattispecie, ed in particolare la possibilità di un concorso materiale tra le stesse, è tutta da verificare tramite il confronto con la casistica e con gli eventuali arresti giurisprudenziali che verranno. Quello che si può ragionevolmente prevedere, in questa specifica area giuridica come in altre, è la probabile cesura tra la giurisprudenza pre-COVID-19 e quella post-COVID-19. La fattispecie di cui all’art. 452 c.p. sembra poi essere alla base delle inchieste, tuttora attivate con particolare riferimento alla situazione drammatica delle Residenze Sanitarie Assistenziali. Alcune di queste vedono già le prime indagini nei confronti delle Direzioni Generali. Non è chiaro (né potrebbe essere altrimenti in ragione del segreto istruttorio) su quali basi fattuali si fondi l’ipotesi e la fattispecie di reato per cui si procede. Nel tentativo di formulare delle congetture plausibili, si fa fatica a non pensare che l’epidemia colposa sia configurata in relazione alla mancata adozione di presidi (di qualunque genere, ma primi tra tutti i dispositivi di protezione individuali per operatori e pazienti) idonei ad impedire, limitare o contenere la diffusione dell’agente patogeno. Se così fosse, il dato si scontrerebbe con gli arresti più recenti della giurisprudenza di legittimità in materia, secondo la quale il concetto giuridico di epidemia è ben più ristretto dell’omologo scientifico e – soprattutto – il reato in questione non sarebbe configurabile in caso di condotta omissiva (così da ultimo Cass., Pen. Sez. IV°, 12.12.2017, n. 9133). Proprio il tema della disponibilità e dell’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale è quello maggiormente agli onori delle cronache, ed è prevedibile diventi un tema da considerare in rapporto alle ipotetiche responsabilità delle quali si promuoverà l’accertamento. Inevitabile infatti pensare a future contestazioni che contemplino la violazione del Decreto Legislativo n. 81 del 2008, aprendosi quindi alla cerchia dei datori di lavoro (evidentemente anche sulla base di questa previsione si parla di “scudo normativo” esteso al personale amministrativo e dirigenziale delle strutture sanitarie), con riferimento a decessi e lesioni dei pazienti nelle strutture sanitarie, ma anche di medici e infermieri operanti all’interno delle medesime. Questa previsione è resa ancor più plausibile dal fatto che la relativa contestazione formulata a corredo dei reati di omicidio colposo e lesioni gravi o gravissime, aprirebbe alla responsabilità amministrativa degli enti alla stregua dell’art. 25 septies D. Lgs. 231 del 2001 (purché siano enti privati, come nel caso di alcune RSA); responsabilità altrimenti preclusa dalla circostanza che le fattispecie di reato di cui si è detto non figurano nel catalogo dei reati previsti dal decreto sulla responsabilità amministrativa degli enti. 4. La responsabilità civile Sul piano strettamente civilistico, il giurista dovrà focalizzare i propri sforzi sull’individuazione del nesso di causalità volto a dimostrare l’esistenza o meno di un collegamento tra l’infezione da coronavirus e i decessi, collegamento dovuto ad eventuale imperizia, negligenza o mancata applicazione di norme da parte del personale delle Rsa e della loro amministrazione. In materia di responsabilità sanitaria da colpa medica e per consolidata giurisprudenza, la previsione dell’art. 1218 cod. civ. solleva il creditore dell’obbligazione che si afferma inadempiuta (nella fattispecie i pazienti dei deceduti e dei familiari stessi) dall’onere di provare la colpa del debitore (nel caso, le Rsa e il personale che in esse opera), ma non dall’onere di dimostrare il nesso eziologico tra la condotta del debitore e il danno di cui si domanda il risarcimento (ex plurimis, Cass. Civ. n. 6593/2019). Come noto, la L. n. 24/2017 (c.d. Legge “Gelli - Bianco”) all’art. 7 pone a carico delle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private, una responsabilità di natura contrattuale in forza del contratto c.d. “di spedalità” per le condotte dolose o colpose di coloro che al loro interno esercitano la professione sanitaria; per gli operatori sanitari persone fisiche è invece prevista una responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ. Le suddette strutture (quindi anche le Rsa) rispondono altresì ai sensi dell’art. 1218 cod. civ. in proprio (e non solo per il fatto altrui) dei danni subiti dai pazienti a causa della violazione di obblighi ad esse imposti. In tema di suddivisione dell’onere probatorio, il paziente è tenuto a dimostrare l’esistenza del rapporto di spedalità con la struttura e l’insorgenza della patologia infettiva da Covid ovvero il suo aggravamento ed allegare l’inadempimento del debitore quale causa o concausa della produzione del danno; specularmente, la casa di cura dovrà invece dimostrare la diligenza della propria prestazione, il mancato inadempimento, ovvero la sua scarsa rilevanza ai fini dell’insorgenza dell’infezione. La colpa del debitore è presunta. Per superare detta presunzione, la struttura – debitrice dovrà dimostrare la non imputabilità del suo inadempimento con la prova, piena e completa, della mancanza di colpa, ossia di aver fatto tutto il possibile per adempiere la prestazione dovuta; in mancanza di detta prova liberatoria, si dovrà presumere la sussistenza dell’elemento soggettivo e quindi la responsabilità per inadempimento. Più concretamente, le case di cura interessate dovranno dimostrare di non aver potuto adempiere la propria prestazione in favore dei pazienti (molti dei quali deceduti a causa del Coronavirus o anche semplicemente infettati nel corso dell’epidemia e poi guariti) in assenza di una loro condotta negligente o imprudente perché, a titolo di esempio: a) avevano seguito esattamente i loro protocolli interni; b) non erano state fornite, loro dalle amministrazioni sanitarie competenti, precise indicazioni sul trattamento dei malati da Covid 19 ospitati da altri nosocomi dopo la fase acuta; c) non erano stati forniti loro, in maniera sufficiente, dei presidi medici (come mascherine e guanti) per far immediato fronte all'emergenza epidemica, pur avendo tempestivamente e documentalmente avvisato le amministrazioni competenti di tale carenza. 5. I danni risarcibili A seguito del decesso da Covid-19 nelle RSA e di dimostrazione della responsabilità della struttura, è risarcibile il danno tanatologico, tipico degli eventi lesivi mortali, che si verifica quando tra l’evento lesivo e la morte del danneggiato intercorre un periodo di tempo tale da comportare, per lo stesso soggetto, sofferenze e patema. In quest’ultimo caso, quando cioè all’evento lesivo consegue la morte del danneggiato, il risarcimento dei danni non patrimoniali spetta agli eredi della persona deceduta, i quali possono agire nei confronti della residenza sanitaria assistenziale responsabile. I danni risarcibili agli eredi possono essere domandati “iure proprio” e “iure hereditatis”: la differenza sta nel fatto che nel primo caso viene risarcito il danno morale patito dagli eredi per la perdita del proprio congiunto, nel secondo caso il danno è quello subito dalla vittima e che, a seguito della morte, si trasferisce agli eredi. Sulla trasmissibilità del danno non patrimoniale agli eredi, in particolare del danno tanatologico, la Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 22451 del 27.09.2017 ha affermato che il danno biologico trasmissibile iure hereditatis, consistente nei postumi invalidanti che hanno caratterizzato la durata concreta del periodo di vita del danneggiato dal momento della lesione fino al decesso, presuppone che gli effetti pregiudizievoli si siano effettivamente prodotti. A tal fine è necessario che tra l’evento lesivo ed il momento del decesso sia intercorso un apprezzabile lasso temporale; con riferimento al danno tanatologico, pertanto, se la morte è subentrata subito dopo l’evento dannoso, o dopo brevissimo tempo, gli Ermellini ne escludono la risarcibilità; ciò in ragione dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il credito risarcitorio, ovvero nel caso del decesso dopo un esiguo lasso temporale, della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo. In queste ipotesi, dunque, agli eredi spetterà unicamente il danno non patrimoniale “iure proprio”, cioè quello derivante dalla sofferenza per la perdita di un prossimo congiunto; si tratta di un danno quantificabile dal giudice in via equitativa, ricorrendo a parametri e tabelle sviluppati dai Tribunali nel corso degli anni – a partire dalle Tabelle del Tribunale di Roma del 2009 e fino a quelle elaborate dal Tribunale di Milano nel 2018 -, in grado di fornire indici di valutazione per la liquidazione del risarcimento. 6. Scenari immediati Qualunque prospettiva si tenti di delineare in relazione a futuri scenari giudiziari o para-giudiziari, sconta l’inevitabile confronto con le caratteristiche eccezionali del fenomeno che stiamo vivendo, molte delle quali attengono in via diretta o mediata alla sostanziale carenza – su scala globale – di informazioni a disposizione. Se si tiene a mente la progressione cronologica delle informative e dei provvedimenti emanati da istituzioni internazionali e nazionali in relazione all’emergenza in corso, risulta molto difficile collocare – su qualunque operatore, a qualunque livello – una sufficiente consapevolezza della pericolosità, della pervasività e dell’incombenza dell’epidemia da COVID-19 prima dell’8 marzo 2020, data di emissione del primo d.p.c.m., contenente, tra l’altro, una serie di indicazioni pratiche fornite alla popolazione e descritte come utili a prevenire la diffusione del contagio. Tra l’altro va osservato che le stesse indicazioni sono al centro di un costante e progressivo dibattito, anche scientifico, che ne valuta (e in qualche caso ne mette in dubbio) quotidianamente l’adeguatezza. Se si dibatte di misure idonee a prevenire il contagio, non può non rilevarsi come le modalità effettive di trasmissione del virus (ad esempio la circolazione e la permanenza nell’aria, così come anche l’eventuale resistenza sulle diverse superfici) non siano ad oggi totalmente conosciute. Sicuramente, in quest’area di possibile responsabilità, il benchmark informativo è costituito dalle raccomandazioni emanate dall’Istituto Superiore di Sanità, ed è prevedibile che nel delineare le future responsabilità legate all’emergenza da COVID-19, si esigerà dall’operatore sanitario, inteso in senso lato (non solo medici e infermieri, ma anche personale amministrativo e dirigenziale delle strutture sanitarie), di aver operato conformemente alle misure di volta in volta diramate. Sempre nell’area della prevenzione, un ruolo centrale è rivestito dai dispositivi di protezione individuale, la cui mancata adozione è suscettibile di favorire (nel senso di non impedire) la diffusione. Anche qui, tuttavia, va osservato che il dibattito scientifico (e conseguentemente anche quello politico) sull’adeguatezza di alcuni dispositivi è ancora aperto: ad oggi l’OMS ritiene che l’uso di mascherine da parte di soggetti sani (diversi dagli operatori che lavorano nella prima linea di lotta all’emergenza) sia superfluo, se non addirittura controproducente, in quanto contribuirebbe a generare un falso senso di sicurezza che potrebbe disincentivare il rispetto delle ulteriori misure di distanziamento sociale. Va aggiunto che tuttora esiste una netta sproporzione quantitativa tra la disponibilità effettiva di questi strumenti e le esigenze che emergono a livello territoriale; una sproporzione che si sta cercando di colmare, ma che resta ad oggi molto elevata. Se le informazioni disponibili sugli strumenti adeguati a prevenire il contagio (a prescindere dalla scarsa reperibilità degli stessi) sono assai poche, mancano totalmente quelle relative a trattamenti clinici adeguati. Analoga sproporzione si rinviene nell’area diagnostica. Se si pensa ad ipotesi di responsabilità per omessa diagnosi di un’infezione da COVID-19, non può che venire in mente lo scarso numero dei tamponi disponibili (ad esempio per carenza, a livello mondiale, dei reagenti necessari ad eseguirli). Insomma, ancorché le ricerche scientifiche da anni ammoniscano circa il rischio di gravi pandemie, sembra fin troppo evidente che l’intero sistema Paese sia stato colto impreparato dalla natura e dalle proporzioni dell’emergenza in corso, considerazione che potrebbe riflettersi nella valutazione delle eventuali responsabilità individuali che in futuro saranno oggetto di accertamento, ciò nell’esigenza imprescindibile di assicurare giustizia alle vittime senza cedere alla tentazione di trovare meri capri espiatori. WR Milano Avvocati
In tema di responsabilità penale medica, con una recente sentenza la Corte di Cassazione ha analizzato la portata effettiva della nuova causa di non punibilità introdotta con la legge Gelli (L. 24/2017). Si ricorda che la legge Balduzzi (L. 189/2012), escludeva la responsabilità penale del medico o esercente la professione sanitaria solo in caso di colpa lieve e a condizione che egli si fosse attenuto alle linee guida o buone pratiche. La legge n. 24/2017 (cd. “Gelli-Bianco”), riformando la disciplina, ha introdotto l’art. 590-sexies c.p., prevendendo la non punibilità del medico in caso di morte o lesioni dell’assistito qualora il medico si sia attenuto alle raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto, pur in presenza di una condotta imperita. La responsabilità penale residua comunque in caso di condotta imprudente o negligente. La finalità della norma verte nell’evitare che i medici agiscano con costante “timore” di esser processati per fatti penalmente rilevanti. Ebbene, la Suprema Corte con la sentenza n. 50078/2017, nell’esaminare la successione normativa ha rilevato innanzitutto che la causa di non punibilità del medico di cui all’art. 590 sexies c.p. sia applicabile anche ai fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge Gelli e anche ai procedimenti pendenti in Cassazione. Il caso pratico di cui la Suprema Corte si è dovuta occupare - che merita di essere sia pur in estrema sintesi ricapitolato per poter meglio comprendere poi il principio di diritto affermato - è il seguente: il giudice di primo grado aveva condannato un chirurgo per i danni cagionati alla paziente in seguito ad un intervento di chirurgia estetica, precisamente una operazione di lifting del sopracciglio, individuando la colpa nella imperizia nella concreta esecuzione dell'intervento e non nella scelta dello stesso, imperizia che aveva determinato la lesione del nervo sovra orbitario nel corso della esecuzione. La sentenza era stata confermata in appello. I giudici di merito in entrambi i gradi di giudizio avevano escluso l’applicabilità della c.d. legge Balduzzi, avendo apprezzato, in modo assorbente, la sussistenza dei profili della colpa grave, che - come è noto - è configurabile nel caso di una deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato, ossia dell’errore inescusabile, che trova origine o nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione o nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell’uso dei mezzi manuali o strumentali adoperati nell’atto operatorio e che il medico deve essere sicuro di poter gestire correttamente o, infine, nella mancanza di prudenza o di diligenza, che non devono mai difettare in chi esercita la professione sanitaria. La Suprema Corte, pur avendo dichiarato prescritto il reato ed avendo confermato la responsabilità del chirurgo ai soli fini delle statuizioni civili - prendendo spunto dalla circostanza per cui nel caso sottoposto al suo esame il profilo di colpa è stato individuato dai giudici di merito nella imperizia nella concreta esecuzione dell’intervento e non nella scelta dello stesso - ha inteso comunque esaminare lo statuto della colpa medica in seguito alla novella intervenuta con la legge c.d. Gelli-Bianco, (L. 24 dell’8/3/2017). In particolare, rilevato che si verte in tema di imperizia, ha affrontato il tema dell’applicabilità del novum normativo, se ritenuto più favorevole, delineando la portata della riforma e gli effetti in relazione alla fattispecie portata al suo esame. Le premesse da cui gli “Ermellini” prendono le mosse sono due: a) non si pone più un problema di grado della colpa, salvo casi concreti in cui la legge Balduzzi possa configurarsi come disposizione più favorevole per i reati consumatisi sotto la sua vigenza coinvolgenti profili di negligenza ed imprudenza qualificati da colpa lieve (per ultrattività del regime Balduzzi più favorevole sul punto); b) l’esenzione della responsabilità è limitata alle sole situazioni astrattamente riconducibili alla imperizia, rimanendo escluse dalla previsione normativa le ipotesi di negligenza e di imprudenza. Rileva altresì la Corte nel suo percorso logico argomentativo che la nuova legge introduce una causa di esclusione della punibilità per la sola imperizia la cui operatività è subordinata alla condizione che dall’esercente la professione sanitaria siano state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge, ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico assistenziali e che dette raccomandazioni risultino adeguate alla specificità del caso concreto. Tale risultato è stato perseguito dal legislatore [in tal senso la lettera della norma - a giudizio dei supremi giudici - non ammette equivoci] costruendo una causa di non punibilità, come tale collocata al di fuori dell’area di operatività del principio di colpevolezza: la rinuncia alla pena nei confronti del medico si giustifica nell’ottica di una scelta del legislatore di non mortificare l’iniziativa del professionista con il timore di ingiuste rappresaglie mandandolo esente da punizione per una mera valutazione di opportunità politico criminale, al fine di restituire al medico una serenità operativa così da prevenire il fenomeno della cd. “medicina difensiva”. In questa prospettiva l’unica ipotesi di permanente rilevanza penale della imperizia sanitaria può essere individuata nell’assecondamento di linee guida che siano inadeguate alla peculiarità del caso concreto (le giudelines che la dottrina qualifica come adempimenti inopportuni); mentre non vi sono dubbi sulla non punibilità del medico che, seguendo linee guida adeguate e pertinenti pur tuttavia sia incorso in una imperita applicazione di queste (quelli che la dottrina qualifica come adempimenti imperfetti), con l’ovvia precisazione che tale imperizia non potrà imputarsi se avvenuta nel momento della scelta della linea guida - giacché non potrebbe dirsi in tal caso di essere in presenza della linea guida adeguata al caso di specie, bensì nella fase esecutiva dell’applicazione. Ritiene la Suprema Corte che ci si trovi dinnanzi ad una scelta del legislatore - che si presume consapevole - di prevedere in relazione alla colpa per imperizia nell’esercizio della professione sanitaria un trattamento diverso e più favorevole rispetto alla colpa per negligenza o per imprudenza. A conclusione delle considerazioni sopra sintetizzate, i giudici di legittimità, dunque, giungono ad affermare il seguente principio di diritto: il secondo comma dell'art. 590 sexies c. p., articolo introdotto dalla legge 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco), prevede una causa di non punibilità dell’esercente la professione sanitaria operante, ricorrendo le condizioni previste dalla disposizione normativa (rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali, adeguate alla specificità del caso), nel solo caso di imperizia, indipendentemente dal grado della colpa, essendo compatibile il rispetto delle linee guide e delle buone pratiche con la condotta imperita nell’applicazione delle stesse. Avv. Ruggiero Gorgoglione Avv. Walter Massara (Partners)
Con una recente sentenza la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità della condanna dell’ASL al risarcimento dei danni conseguenti al reato di violenza carnale perpetrato da un medico in danno di una paziente. Nel caso in esame un’anestesista ha abusato di una donna fotografandola in pose erotiche e toccandola nelle sue parti intime, il tutto mentre ella era in stato di totale incoscienza in conseguenza del trattamento anestetico subito. Il medico è stato condannato penalmente per il reato di violenza sessuale aggravata e la parte lesa ha agito nei confronti del medico stesso e dell’ASL innanzi al Tribunale di Rieti per ottenere il risarcimento del danno subito. L’ASL è stata condannata sia dal Tribunale di merito che dalla Corte d’Appello, per poi ricorrere in Cassazione non ritenendo sussistente una propria responsabilità civile e diretta per il fatto criminoso del dipendente. La Suprema Corte, mentre, richiamando un precedente orientamento, ha ritenuto l’ASL responsabile per il danno cagionato dal medico, essendo commesso proprio nell’esercizio delle mansioni ad egli attribuite. Nel caso in esame, infatti, la Cassazione ha ritenuto che la commissione del fatto criminoso sia stata agevolata proprio dal ruolo del medico, il quale aveva a sua disposizione tutti gli strumenti necessari per la commissione del crimine, in ragione di ciò l’ASL dev’essere ritenuta responsabile per il danno causato. Team WR Milano Avvocati
Come avevamo anticipato in precedenza, in tema di responsabilità penale del medico, la Suprema Corte con la Sentenza “Cavazza” n. 50078/2017 ha ritenuto che la disciplina introdotta con la Legge Gelli-Bianco fosse più favorevole. La recente pronuncia delle Sezioni Unite ha chiarito definitivamente l’interpretazione normativa del nuovo articolo 590 sexies del codice penale, così come introdotto dall’articolo 6 della legge 8 marzo 2017, numero 24, posto al centro di un lungo dibattito tra dottrina e giurisprudenza. Secondo la Corte la norma introdotta con la riforma prevede una causa di non punibilità del medico qualora il sanitario, pur avendo adottato una condotta imperita (indipendentemente dal grado della colpa), si sia adeguato alle linee guida o alle buone pratiche assistenziali in assenza di linee guida. La responsabilità penale secondo tale orientamento residuerebbe comunque in caso di condotta imprudente o negligente, nel qual caso potrebbe applicarsi ancora la legge Balduzzi per in caso di condotta imprudente o negligente che qualificata da colpa lieve a condizione che comunque il sanitario si sia attenuto a linee guida o buone pratiche e che il fatto si sia consumato sotto la vigenza della norma. Rilevato il contrasto interpretativo la corretta interpretazione della norma è stata rimessa alle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione le quali, all’esito dell’udienza del 21.12.2017, hanno formulato il principio di diritto di seguito schematizzato per fornire delle prime considerazioni agli operatori. Per cui, secondo quanto asserito dalle Sezioni Unite, il professionista è penalmente responsabile per l’evento “morte o lesioni personali” derivanti dall’esercizio della propria attività se: a) ha agito con condotta imprudente o negligente sia lieve che grave; b1) ha agito con imperizia sia lieve che grave commettendo un errore esecutivo in assenza di linee guida e buone pratiche clinico-assistenziali; b2) ha agito con imperizia sia lieve che grave avendo erroneamente individuato e scelto le linee-guida o le buone pratiche inadeguate al caso concreto, fermo restando l’obbligo del medico di disapplicarle quando la specificità del caso renda necessario lo scostamento da esse; c) ha agito con “colpa grave” da imperizia anche se ha rispettato le linee guida e le buone pratiche, tenuto conto altresì del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico. La Corte, pertanto, non ha accolto l’interpretazione letterale secondo la quale sarebbe esclusa la punibilità per qualsivoglia errore esecutivo per imperizia ma nel rispetto delle linee guida e buone pratiche. Ha reintrodotto pertanto in via interpretativa la graduazione della colpa non prevista dal “frettoloso” legislatore. Insomma, in attesa di poter dar conto delle motivazioni della sentenza, è disponibile l’informazione provvisoria della pronuncia del 21 dicembre scorso sull’ambito di esclusione della punibilità previsto dall’art. 590-sexies, 2° comma, c.p. Nel descrivere la soluzione adottata, dalla lettura del dispositivo si rovescia la prospettiva con l’indicazione dei casi nelle quali il sanitario possa essere considerato penalmente responsabile, ovverosia quando, nell’interpretazione della condotta professionale, i profili di colpa attengano ad un ambito diverso da quello della perizia, cioè siano qualificabili in termini di negligenza o imprudenza. Ovvero allorchè, pur trattandosi di imperizia: -vi sia un rimproverabile errore nell’individuazione e nella scelta di linee guida o buone pratiche a cui il sanitario si attenga nonostante siano inadeguate alle specificità del caso concreto; - sussiste un rimproverabile errore esecutivo della prestazione sanitaria e per il caso concreto non siano disponibili linee guida né buone pratiche clinico - assistenziali; - vi siano linee guida oppure, in mancanza di esse, buone pratiche clinico - assistenziali adeguate alle specificità del caso concreto a cui il sanitario si attenga ma commetta un rimproverabile errore esecutivo qualificabile in termini di colpa grave. In sintesi, sembra che le Sezioni Unite siano orientate ad attribuire, ancora oggi, importanza al grado della colpa, riconoscendo l’operatività dell’art. 590-sexies, 2° comma, c.p. nei soli casi di imperizia in cui vi sia un lieve errore esecutivo di linee guida o (in mancanza di esse, di) buone pratiche clinico - assistenziali adeguate alle specificità del caso concreto, tenendo comunque conto “… del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico”. Avv. Ruggiero Gorgoglione Avv. Walter Massara WR Milano Avvocati
La recente approvazione della legge 22 dicembre 2017, n. 219 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, riforma che introduce nel nostro diritto positivo il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento (testamento biologico), pone alcuni interrogativi in merito alla natura dell’istituto della pianificazione condivisa delle cure e dei suoi riflessi civilistici sulla responsabilità del professionista sanitario. Ebbene, ai sensi dell’articolo 5, primo comma, della novella legislativa viene introdotta nel nostro ordinamento la cd. “pianificazione condivisa delle cure”. Trattasi di una nuova proposta terapeutica che viene concordata tra medico e paziente qualora quest’ultimo versi in condizioni cliniche caratterizzate dall’ “… evolversi di una patologia cronica invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta”. Questo atto supera la precedente disposizione anticipata di trattamento – per ovvie questioni di specialità e temporalità – e viene predisposta dal medico che ha previamente informato il paziente e, dietro suo esplicito consenso, il suo consesso familiare (coniuge, convivente, parte dell’unione civile, altri familiari). Il paziente può quindi nominare, con lo stesso atto, un fiduciario. Particolare attenzione viene posta alle aspettative di vita residue, ai trattamenti sanitari da porre in essere e alle cure palliative, aggiornati “al progressivo evolversi della malattia” sia su “richiesta” del paziente che su “suggerimento” del medico. Si pone quindi il problema della natura giuridica dell’istituto in esame che, a giudizio degli scriventi, non può che essere negoziale. L’art. 5, comma 3 configura difatti la pianificazione condivisa delle cure quale esito dell’incontro tra la volontà del medico che formula la proposta terapeutica e del paziente che, debitamente informato, presta il proprio consenso a detta proposta. Medico e paziente pertanto, nel condividere il piano terapeutico, pongono in essere un atto di autonomia negoziale. Tale natura negoziale della pianificazione terapeutica viene quindi corroborata dalla succitata previsione normativa di cui all’art. 5, comma 1, che obbliga il medico e la propria équipe ad attenersi al contenuto della stessa pianificazione terapeutica in caso di sopravvenuta incapacità del paziente. Per l’effetto, il medico che dovesse discostarsi dalla pianificazione condivisa non potrà che rendersi contrattualmente inadempiente proprio degli obblighi che egli stesso ha volontariamente assunto predisponendo il piano terapeutico accettato dal paziente. A detta conclusione si deve giungere a nostro parere sia nel caso in cui si interpretino dette norme quale creazione di nuova fattispecie negoziale (ovvero di un contratto atipico), sia nel diverso caso in cui si configuri il rapporto obbligatorio in oggetto quale mandato speciale a titolo gratuito, soggetto alle disposizioni di cui agli articoli 1703 e seguenti del c.c., in forza del quale il medico si impegna nei confronti del paziente a compiere per suo conto uno o più atti giuridici in esecuzione del piano di cure, come disposto dall’art. 1703 c.c. Ci si pone, a questo punto, l’ulteriore problematica relativa alla relazione tra l’art. 5 della legge 219/2017 e la disposizione normativa dell’art. 7 della Legge Gelli - Bianco (L. 24/2017) e, in particolare, alla compatibilità tra i due precetti. Ovvero ci si chiede se la prima norma, disciplinando il rapporto tra paziente e sanitario in merito alla pianificazione condivisa delle cure, possa spostare per la fattispecie ivi contemplata dalla riforma Gelli, la responsabilità del sanitario stesso – pur inquadrato nelle tipologie di cui all’art. 7 commi 1 e 2 della Legge 24/2017 – nel campo della responsabilità contrattuale. E’ noto difatti che la responsabilità civile del singolo esercente la professione sanitaria “strutturato” viene ora espressamente configurata dall’art. 7 della Legge 24/2017 quale responsabilità di natura aquiliana, distinta dalla responsabilità della struttura sanitaria la quale assume nella nuova legge, altrettanto espressamente, la natura contrattuale.� E’ però altrettanto vero, sotto altro profilo, che la responsabilità contrattuale viene normalmente configurata, ogni qualvolta il danno subito consegua all’inadempimento di un obbligo nascente da un rapporto giuridico già esistente tra danneggiato e danneggiante ovvero dalla preesistenza di un programma specifico di comportamento. Non si può escludere, inoltre, che l’inciso “salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente” di cui all’art. 7, comma 3 della Legge 24/2017, seppur evidentemente riferito nelle intenzioni del legislatore allo svolgimento dell’attività libero professionale, possa essere interpretato, nella sua formulazione generica, anche agli esercenti la professione sanitaria che, pur agendo quali dipendenti o collaboratori di una struttura sanitaria, abbiano assunto un obbligo di natura negoziale – come nell’ipotesi della pianificazione condivisa delle cure - con il paziente. È utile rilevare, infine, che l’eventuale conflitto tra le due norme dovrà essere risolto anche a fronte dei principi di temporalità e specialità, poichè l’articolo 5 della legge 219/2017, entrato il vigore il 30 gennaio 2018, è successivo e regolante una fattispecie speciale rispetto al principio generale sancito dall’art. 7 della Legge Gelli/Bianco. Alla luce di quanto innanzi esposto non si può pertanto escludere che l’esercente la professione sanitaria che si sia reso inadempiente rispetto alla pianificazione delle cure condivisa con il paziente possa essere chiamato a rispondere di responsabilità contrattuale nei confronti del paziente stesso pur avendo egli operato quale sanitario “strutturato”. Avv. Walter Massara Avv. Ruggiero Gorgoglione Team WR & Partners, Milano – Italia Avvocati
Una donna ricoverata per parto cesareo non ha ricevuto il dovuto monitoraggio per cui è stata sottoposta d’urgenza a taglio cesareo, il neonato è stato prontamente ricoverato per “asfissia intrapartum”, condizione che ha causato una “encefalopatia da sofferenza anosso-ischemica perinatale con epilessia generalizzata sintomatica e paralisi infantile di tipo tetraplegico”. Nel caso di specie il Tribunale ha ravvisato un’omissione dei dovuti controlli nella fase pre-parto, mancavano infatti i tre tracciati e le tre visite di controllo nel lasso di tempo intercorrente tra il ricovero e il parto, come previsto dal protocollo applicabile al caso. Secondo i consulenti d’ufficio i dovuti monitoraggi avrebbero consentito di prevedere l’insorgenza dell’insulto ipossico ischemico perinatale e di effettuare il taglio cesareo con una diversa tempistica. I sanitari, mentre, hanno dichiarato che la paziente era in buona salute pur non espletando le dovute verifiche. In tema di nesso causale il Tribunale di Palermo, richiamando un precedente arresto della Suprema Corte di cui alla sentenza n. 11789/2016, ha ritenuto che il nesso tra l’omissione e l’evento dannoso sussiste allorquando “non vi sia certezza che il danno cerebrale patito dal neonato sia derivato da cause naturali o genetiche e, dall'altro, appaia più probabile che non che un tempestivo o diverso intervento da parte del medico avrebbe evitato il danno al neonato”. Il Tribunale adito ha pertanto condannato l’Azienda Sanitaria convenuta al risarcimento in favore dei genitori esercenti la potestà genitoriale della Somma di 1,9 mln di euro, oltre ad una rendita vitalizia correlata alla perdita totale della capacità lavorativa del neonato. Avv. Ruggiero Gorgoglione team WR Milano Avvocati
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