Sono specializzato nella materia successoria per aver trattato un gran numero di questioni relative ad impugnative di testamenti lesivi di quote di riserva, testamenti poi accertati come falsificati ecc. Tutte le questioni trattate in questo campo si sono concluse con il successo delle pretese dei miei clienti.
Informazioni generali
Rigore morale, autorevolezza e una approfondita conoscenza della materia contraddistingue l'avvocato Francesco Dimundo, il quale fa della sua inesauribile curiosità e competenza il vero motore dei propri successi professionali. Dalla spontaneità dell’approccio scientifico derivano generosità intellettuale e intransigenza nel perseguire i risultati del proprio impegno. Una buona dose di saggia prudenza e di buon senso completano il sua metodo di lavoro. Ogni questione proposta dal cliente viene sempre scandagliata e approfonditamente analizzata prima di avviare un eventuale contenzioso giudiziario
Esperienza
Ho sviluppato importanti competenze in materia di condominio, diritti dei consumatori e risarcimenti, eredità e donazioni, contratti, locazioni, proprietà e diritti reali, recupero crediti, separazioni e divorzi, infortunistica stradale e liberazione terreni da livelli Fondo Edifici di Culto, risarcimenti e rimborsi inerenti a voli contro le compagnie aeree, ecc.
Ho maturato una consistente esperienza nel campo del recupero crediti grazie alla quale mi è possibile scegliere il rimedio adatto e più efficace e veloce per il cliente, evitando al massimo perdite di tempo e denaro.
Altre categorie
Pignoramento, Contratti, Diritto condominiale, Locazioni, Sfratto, Risarcimento danni, Incidenti stradali, Diritto di famiglia, Separazione, Diritto immobiliare, Diritto agrario, Diritto del turismo, Diritto assicurativo, Divorzio, Diritto del lavoro, Sicurezza ed infortuni sul lavoro, Tutela del consumatore, Malasanità e responsabilità medica.
Credenziali
Tamponamento a catena. Chi paga?
Pubblicato su IUSTLABViviamo in un’epoca in cui nessuno rinuncia all’automobile: solo nel 2018 sono state immatricolate ben 1.970.497 automobili (Fonte:aci ) senza contare i veicoli di trasporto merci e bus; e il trend è in costante crescita. E’ logico aspettarsi che sia altrettanto alto il numero di incidenti stradali. E, infatti, è proprio così. Si pensi che nel 2016 si sono verificati in Italia 175.791 incidenti stradali (Fonte: istat ) Tra i comportamenti errati più frequenti l’ISTAT segnala la guida distratta, il mancato rispetto della precedenza e la velocità troppo elevata (nel complesso il 41,5% dei casi). Le violazioni al Codice della Strada più sanzionate risultano, infatti, l’eccesso di velocità, il mancato utilizzo di dispositivi di sicurezza e l’uso di telefono cellulare alla guida. In siffatto scenario uno degli accadimenti più frequenti – e per fortuna non dei più gravi – nelle nostre realtà urbane, è senza dubbio il cosiddetto “tamponamento a catena”. A tal proposito è lecito chiedersi se la responsabilità del tamponamento a catena sia dell’ultimo veicolo sopraggiunto – per intenderci quello che ha provocato il primo tamponamento – oppure no. Per dare una risposta a tale quesito è necessario stabilire se i veicoli coinvolti nel tamponamento siano fermi o in movimento. In giurisprudenza è consolidato il principio secondo cui, nell'ipotesi di tamponamento a catena tra veicoli in movimento trova applicazione l'art. 2054, comma 2 del codice civile, con conseguente presunzione "iuris tantum" di colpa in eguale misura di entrambi i conducenti di ciascuna coppia di veicoli (tamponante e tamponato), fondata sull' inosservanza della distanza di sicurezza rispetto al veicolo antistante, qualora non sia fornita la prova liberatoria di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Quando i veicoli sono in movimento, quindi, ciascun conducente è responsabile dei danni subiti dal veicolo che lo precede ed è pertanto tenuto a sopportare in proprio le spese eventualmente occorse per la riparazione dei danni alla parte anteriore del suo veicolo, mentre ha diritto ad essere risarcito, dal "suo" tamponante, del danno subito alla parte posteriore. Nel caso, invece, di scontri successivi fra veicoli facenti parte di una colonna in sosta , unico responsabile degli effetti delle collisioni è il conducente che le abbia determinate , tamponando da tergo l'ultimo dei veicoli della colonna stessa (Cassazione civile sez. III 19 febbraio 2013 n. 4021). Graverà su quest’ultimo, pertanto, l’obbligo di risarcire i danni subiti da tutti gli automobilisti che lo hanno preceduto. Ad ogni modo è sempre bene considerare il dettato dell’art art. 141 del codice della strada il quale afferma che " è obbligo del conducente regolare la velocità del veicolo in modo che avuto riguardo alle caratteristiche, allo stato ed al carico del veicolo stesso, alle caratteristiche e alle condizioni della strada e del traffico e ad ogni altra circostanza di qualsiasi natura, sia evitato ogni pericolo per la sicurezza delle persone e delle cose ed ogni altra causa di disordine per la circolazione". AVVERTENZA PER IL LETTORE Questo scritto non approfondisce tutti gli aspetti controversi della questione trattata. Quando hai un problema non accontentarti mai della lettura di saggi o articoli sul web anche perché il diritto è in continua evoluzione e il medesimo fatto potrebbe avere una qualificazione giuridica diversa a distanza di anni. Rivolgiti sempre ad un professionista : lui sa come prevenire i rischi ed evitare i numerosi pericoli che si annidano ovunque e conosce la strada migliore per tutelare adeguatamente i tuoi diritti.
Come comportarsi in caso di sinistro stradale senza urto tra veicoli?
Pubblicato su IUSTLABQuante volte alla guida della nostra auto o della nostra moto, ci è capitato di temere che qualcuno aprisse repentinamente e avventatamente la portiera di un veicolo parcheggiato? E magari abbiamo anche ipotizzato di possedere quella prontezza di riflessi necessaria a deviare la marcia per evitare l’impatto. Ma cosa succede se per scansare un ostacolo causiamo un incidente? L’art. 2054 del codice civile prescrive che “nel caso di scontro tra veicoli si presume, fino a prova contraria, che ciascuno dei conducenti abbia concorso ugualmente a produrre il danno subito dai singoli veicoli”. E nel caso in cui non vi sia uno scontro? La Suprema Corte ha più volte chiarito che “ la presunzione di pari corresponsabilità nella causazione di un sinistro stradale, prevista dall'art. 2054 comma 2 c.c., è applicabile, di regola, soltanto quando tra i veicoli coinvolti vi sia stato un urto. Tuttavia, anche quando manchi una collisione diretta tra veicoli è consentito applicare estensivamente la suddetta norma al fine di graduare il concorso di colpa tra i vari corresponsabili, sempre che sia accertato in concreto il nesso di causalità tra la guida del veicolo non coinvolto e lo scontro.” (Cassazione civile sez. III 09 marzo 2012 n. 3704; Cassazione civile sez. III 23 luglio 2002 n. 10751). E’ necessario, pertanto, accertare in via preventiva il nesso di causalità tra il comportamento del conducente del veicolo responsabile della manovra improvvisa e il sinistro. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18337 del 31/07/2013, si è espressa sul caso di un motociclista che, rovinato al suolo per evitare l’impatto con un veicolo che aveva commesso una incauta manovra, aveva chiesto al proprietario dell’auto il risarcimento dei danni subiti. La Corte ha rigettato il ricorso del motociclista poiché questi non aveva dimostrato che la condotta dell’automobilista era stata effettivamente avventata e illegittima ed era stata di per sé idonea a causare la caduta; era anzi emerso che quest’ultima si era verificata per colpa del ricorrente stesso. In altra nota sentenza riguardante un caso del tutto analogo, il Tribunale di Piacenza sottolinea che “ alla stregua dei principi generali codificati dall'art. 2697 c.c., spetta interamente all'attore dar prova di quanto dedotto, e cioè che l'occupazione del bordo stradale oltre il limite asfaltato è stata una manovra di emergenza resa necessaria per evitare lo scontro con lo scuola scuolabus, asseritamente circolante in violazione delle norme di circolazione in quanto in eccesso di velocità e sul lato sinistro della strada” (Tribunale di Piacenza del 27/10/2010). In conclusione, quando si è in presenza di un sinistro in cui non vi è stato alcun impatto tra i veicoli, è d’obbligo chiedersi: è stato davvero il veicolo non entrato in collisione con noi a provocare il sinistro di cui siamo stati vittime? Siamo in grado di dimostrarlo? Oppure avremmo potuto evitare il sinistro con le dovute cautele e precauzioni? AVVERTENZA PER IL LETTORE: Questo scritto non approfondisce tutti gli aspetti controversi della questione trattata. Quando hai un problema non accontentarti mai della lettura di saggi o articoli sul web anche perché il diritto è in continua evoluzione e il medesimo fatto potrebbe avere una qualificazione giuridica diversa a distanza di anni. Rivolgiti sempre ad un professionista : lui sa come prevenire i rischi ed evitare i numerosi pericoli che si annidano ovunque e conosce la strada migliore per tutelare adeguatamente i tuoi diritti.
Incidente sulla rampa del garage
Pubblicato su IUSTLAB“Caro Avvocato, mentre percorrevo la rampa del garage a bordo della mia autovettura, non mi sono accorto della segnalazione luminosa di colore rosso che impone alle auto in salita di arrestarsi in prossimità dell’inizio della rampa per dare la precedenza alle auto in discesa. Così, superata la curva della rampa, non ho potuto evitare lo scontro con il veicolo che stava scendendo. Evidentemente la colpa del sinistro è mia anche perché nessun segnalatore luminoso è presente in cima alla rampa, in corrispondenza del cancello e, quindi, l’altro automobilista non poteva sapere che in quel momento stavo sopraggiungendo io in direzione opposta (tanto più in considerazione che la rampa ha un angolo cieco a causa della curva). Il danneggiato può rivolgersi all’assicurazione per ottenere il ristoro dei danni subiti?” Caro lettore, dalla prospettazione dei fatti da Lei offerta, la risposta alla Sua domanda deve ritenersi senza dubbio negativa. E’ opportuno partire dal dettato normativo dell’art. 122 del decreto legislativo n. 209 del 2005 - il cosiddetto Codice delle Assicurazioni – che prescrive testualmente che “ i veicoli a motore senza guida di rotaie, compresi i filoveicoli e i rimorchi, non possono essere posti in circolazione su strade di uso pubblico o su aree a queste equiparate se non siano coperti dall'assicurazione per la responsabilità civile verso i terzi […] ”. Il concetto di “circolazione” lo si ritrova anche in altre importanti norme come l’art. 144 del citato decreto legislativo, che stabilisce che “ Il danneggiato per sinistro causato dalla circolazione di un veicolo o di un natante, per i quali vi è obbligo di assicurazione, ha azione diretta per il risarcimento del danno nei confronti dell’impresa di assicurazione del responsabile civile […]” . Ciò che emerge da tale quadro normativo è che uno dei presupposti per l’applicazione della normativa sull’assicurazione obbligatoria è che il sinistro avvenga in un’area stradale o in area ad essa equiparata . In effetti tale principio è stato ribadito dalla Suprema Corte nonché da molte Corti di merito, le quali hanno teorizzato il concetto di “accessibilità dell’area ad un numero indeterminato di persone” ai fini dell’equiparazione di questa alle strade di uso pubblico (Cassazione civile sez. III 28 aprile 2017 n. 10513). Eloquente, a tal uopo, è la recente sentenza n. 3470 del 24 Luglio 2017 della Corte di Appello Milano la cui massima così recita: “ L'accesso all'area condominiale è consentito solo alle auto a ciò autorizzate, cioè quelle dei condomini che vi risiedono, ed è chiuso al pubblico , sicché non può ritenersi che l'infortunio occorso si sia verificato su una strada ad uso pubblico, aperta cioè ad un numero indeterminato di persone aventi la possibilità giuridicamente lecita di accedervi . Risulta perciò inapplicabile la disposizione di cui all' art. 144 C.d.A. che consente, per il risarcimento del danno, l'esperibilità dell'azione diretta nei confronti dell'assicuratore del danneggiante da parte del danneggiato, atteso che "tale azione è consentita solo per i danni derivanti dalla circolazione dei veicoli a motore su strade di uso pubblico od aree a queste equiparate" ( art. 122 Codice delle Assicurazioni ) [… ]”. Di contro è stato ammesso il risarcimento da parte dell’impresa assicuratrice in caso di sinistro avvenuto in area privata destinata alla distribuzione di carburante, in quanto siffatte aree, ancorché di proprietà privata, sono aperte ad un numero indeterminato di persone (Cassazione civile sez. III 03 marzo 2011 n. 5111). Del resto gli ermellini con una nota decisione del 2013, si sono espressi proprio su un caso del tutto analogo a quello in questione, precisando che n on sussiste azione diretta verso l'assicurazione se il sinistro avviene sulla rampa di accesso al garage sito in un parco privato (Cassazione civile sez. III del 03/04/2013 n. 8090). La rampa di accesso ad un garage, infatti, rappresenta, indipendentemente dalla natura pubblica o privata dell'area, un luogo in cui la circolazione non è consentita ad un numero indeterminato di persone, ovvero da parte del pubblico, ma solo a coloro che devono compiere la manovra di ingresso o di uscita dal garage e che - come titolari del diritto di ricoverarvi il veicolo - costituiscono un numero determinato di persone e vengono in considerazione uti singoli e non uti cives . AVVERTENZA PER IL LETTORE: Questo scritto non approfondisce tutti gli aspetti controversi della questione trattata. Quando hai un problema non accontentarti mai della lettura di saggi o articoli sul web anche perché il diritto è in continua evoluzione e il medesimo fatto potrebbe avere una qualificazione giuridica diversa a distanza di anni. Rivolgiti sempre ad un professionista : lui sa come prevenire i rischi ed evitare i numerosi pericoli che si annidano ovunque e conosce la strada migliore per tutelare adeguatamente i tuoi diritti.
Eredità e assicurazione sulla vita
Pubblicato su IUSTLABNell’anno 2015 Tizio decedeva lasciando quali eredi testamentari i suoi due figli Caio e Sempronia ed un patrimonio di euro 150.000,00 in titoli bancari. Nel testamento Tizio aveva disposto l’assegnazione della somma di euro 50.000,00 in favore di Caio e della somma di euro 100.000,00 in favore di Sempronia. Dopo qualche mese Caio scopriva l’esistenza di una polizza assicurativa sulla vita stipulata da suo padre più di quindici anni prima della sua morte e non menzionata nel testamento. Il corrispettivo di tale assicurazione, corrispondente alla somma di euro 30.000,00, veniva liquidato dall’istituto assicurativo in favore di sua sorella Sempronia, a suo tempo indicata dal padre quale terza beneficiaria nella polizza. Fortemente contrariato, Caio invitava Sempronia - già preferita dal padre in testamento - ad annettere la somma ricevuta dall’assicurazione al patrimonio relitto dal proprio genitore, al fine di dividere il tutto tra di loro. Sempronia di contro opponeva il suo secco rifiuto, certa che la somma di euro 30.000,00 fosse di sua esclusiva proprietà. Caio, quindi, si rivolgeva al suo legale al fine di valutare l’opportunità di un eventuale giudizio. *** E’ bene premettere che la legge riserva una determinata quota di eredità ai cosiddetti “legittimari” nel cui novero sono ricompresi il coniuge del defunto, i suoi figli e ascendenti. Nel caso di specie l’art. 537 del codice civile prescrive che quando i figli sono più di uno, ad essi è riservata la quota di due terzi dei beni relitti dal defunto, da dividersi in parti uguali fra di loro (nel nostro caso, quindi, un terzo cadauno). La rimanente parte dell’eredità è detta “quota disponibile” e può essere attribuita liberamente dal testatore in virtù di preferenze personali. Dal momento, pertanto, che il patrimonio di cui Tizio ha disposto in testamento è costituito da titoli bancari aventi un valore totale di euro 150.000,00, la quota di eredità riservata ad ogni coerede è di euro 50.000,00. Di pari importo è la quota disponibile che nel nostro caso è stata rifusa interamente in favore di Sempronia. Se si considerano, dunque, le sole disposizioni contenute nel testamento, si può ben affermare che il de cuius abbia rispettato il dettato normativo pur favorendo una coerede. V’è da chiedersi, però, se la liquidazione della somma di euro 30.000,00 in favore di Sempronia possa rivelarsi idonea ad incidere sulla bontà della spartizione testamentaria operata dal defunto, ponendo così in essere una lesione di legittima a carico di Caio. In tema di reintegrazione della quota riservata ai legittimari, la norma fondamentale è contenuta nell’art. 556 del codice civile, il quale predica che “ per determinare l’ammontare della quota di cui il defunto poteva disporre si forma una massa di tutti i beni che appartenevano al defunto al tempo della morte, detraendone i debiti. Si riuniscono quindi fittiziamente i beni di cui sia stato disposto a titolo di donazione […] e sull’asse così formato si calcola la quota di cui il defunto poteva disporre . ” E’ evidente che la ratio di tale norma risieda nel chiaro intento di prevenire il rischio che le regole dettate in tema di diritti riservati ai legittimari, possano essere facilmente aggirate attraverso attribuzioni patrimoniali a titolo gratuito operate in vita dal testatore. Ma è possibile equiparare ad una vera e propria donazione la semplice indicazione da parte del de cuius di una persona quale beneficiaria della corresponsione del prezzo di una assicurazione sulla vita? Le corti di merito e di legittimità, chiamate negli anni a giudicare su casi analoghi, hanno elaborato la figura giuridica della cosiddetta donazione indiretta , consistente “nell'elargizione di una liberalità attuata, anziché con il negozio tipico descritto nell'art. 769 del codice civile, mediante un negozio oneroso che produce, in concomitanza con l'effetto diretto che gli è proprio ed in collegamento con altro negozio, l'arricchimento animo donandi del destinatario della liberalità medesima” (Cass. Civ. Sez. II del 21/10/2015 n. 21449). Secondo la giurisprudenza, invero, la donazione indiretta può essere fatta nei modi più vari, purchè caratterizzata dal fine di realizzare una liberalità. Tuttavia, affinchè l’attribuzione si possa considerare sorretta da spirito di liberalità, il donatario non deve essere legato da un vincolo di mantenimento con il donante. E’ quanto chiarito dalla Suprema Corte nella sentenza n. 3263 del 19/02/2016 proprio in tema di prodotti assicurativi sulla vita:“nell'assicurazione sulla vita l'indicazione di un terzo come beneficiario di persona non legata al designante da un vincolo di mantenimento o di dipendenza economica, deve presumersi, fino a prova contraria, compiuta a spirito di liberalità, e costituisce una donazione indiretta”. Nella questione che ci occupa, quindi, occorre preliminarmente appurare se effettivamente Sempronia fosse economicamente indipendente da suo padre. In caso affermativo la somma liquidata in suo favore dall’istituto assicurativo andrebbe senz’altro riunita all’asse ereditario secondo le disposizioni normative sopra illustrate. In tal modo si otterrebbe quale valore totale del patrimonio relitto da Tizio un importo pari ad euro 180.000,00 (150.000,00 + 30.000,00) da cui ricavare la quota di riserva spettante ad ogni coerede. Nella specie un terzo di euro 180.000,00 e, cioè, euro 60.000,00. Da tale computo si evince, pertanto, che Caio sarebbe stato leso nella sua quota di eredità riservatagli dalla legge nella misura di euro 10.000,00. Alla luce delle argomentazioni sopra svolte, Caio ben potrebbe promuovere un’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie eccedenti la quota di cui il de cuius poteva disporre.
Responsabilità del condominio per il fatto del custode
Pubblicato su IUSTLABLa Corte di Cassazione, Sezione III civile, con sentenza 9 giugno 2016, n. 11816, pres. Vivaldi, rel. De Stefano, ha concluso doversi escludere la responsabilità del Condominio per il fatto doloso del portiere allorquando la relativa condotta sia del tutto avulsa dalle mansioni affidate e l’espletamento di quelle abbia costituito una mera occasione non necessaria per la condotta. Il caso: Tizio, idraulico incaricato del controllo di alcune tubature nell’appartamento di Caio – custode dello stabile condominiale – veniva da questi violentemente percosso e riportava gravi lesioni. A seguito del fatto, Tizio citava in giudizio sia Caio sia il condominio invocandone la responsabilità ai sensi dell'art. 2049 del codice civile che prevede che “i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”. In questo caso il condominio può considerarsi responsabile del fatto illecito posto in essere dal portiere? Come è noto, l’art. 2049 del codice civile dispone che i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dai loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti. Occupandosi delle gravi lesioni provocate a un condomino dal comportamento violento del portiere dello stabile condominiale e della conseguente applicabilità alla fattispecie dell'art. 2049 c.c., la Corte ha concluso doversi escludere la responsabilità del Condominio per il fatto doloso del portiere – o altro dipendente o assimilato - nel corso dello svolgimento delle relative mansioni "quando la relativa condotta sia del tutto avulsa dalle mansioni affidate e l’espletamento di quelle abbia costituito una mera occasione non necessaria per la condotta". Ha precisato che "il fatto che la responsabilità del preponente possa sussistere anche se il preposto abbia operato oltrepassando i limiti delle proprie mansioni o abbia agito all’insaputa del primo non consente di ritenere operativa la previsione dell’art. 2049 c.c., quando il fatto illecito sia avvenuto senza il benchè minimo collegamento funzionale con l’attività lavorativa (Cass., ord. 30 giugno 2015, n. 13425), ovvero quando la condotta abbia risposto ad esigenze meramente personali dell’agente. Infatti, "al contrario di quanto previsto dagli artt. 2048 e 2051 cod. civ., la responsabilità in esame prescinde del tutto da una culpa in eligendo o in vigilando del datore di lavoro o preponente ed è quindi insensibile all’eventuale dimostrazione dell’assenza di colpa (Cass. 16 marzo 2010, n. 6325; Cass. 29 agosto 1995, n. 9100), ...in estrinsecazione del principio “cuius commoda eius et incommoda”, secondo il quale del danno causato dal dipendente deve rispondere colui che normalmente trae vantaggio dal rapporto con il preposto. Se questa è la giustificazione di una simile responsabilità, è evidente che le condotte del preposto le cui conseguenze possa sopportare il preponente debbono essere in qualche modo collegate alle ragioni, anche economiche, della preposizione e ricondursi al novero delle normali potenzialità di sviluppo di queste, se del caso considerate alla stregua dell’ordinaria responsabilità per colpa collegata alla violazione dell’altrui affidamento. E’, in tal senso, significativo che la più recente giurisprudenza abbia precisato (Cass. 23448/14, cit.) che l’automatismo dell’insorgenza della responsabilità del preponente si attenua a mano a mano che la condotta del preposto si allontana dalle mansioni e dalle incombenze, tanto che l’art. 2049 c.c., può trovare applicazione per l’operatività dell’ulteriore principio dell’apparenza del diritto circa la corrispondenza della condotta alle mansioni ed incombenze.." Corte di Cassazione Sezione III Civile, n. 11816 del 9 giugno 2016 AVVERTENZA PER IL LETTORE: Questo scritto non approfondisce tutti gli aspetti controversi della questione trattata. Quando hai un problema non accontentarti mai della lettura di saggi o articoli sul web anche perché il diritto è in continua evoluzione e il medesimo fatto potrebbe avere una qualificazione giuridica diversa a distanza di anni. Rivolgiti sempre ad un professionista : lui sa come prevenire i rischi ed evitare i numerosi pericoli che si annidano ovunque e conosce la strada migliore per tutelare adeguatamente i tuoi diritti. La Corte di Cassazione, Sezione III civile, con sentenza 9 giugno 2016, n. 11816, pres. Vivaldi, rel. De Stefano, ha concluso doversi escludere la responsabilità del Condominio per il fatto doloso del portiere allorquando la relativa condotta sia del tutto avulsa dalle mansioni affidate e l’espletamento di quelle abbia costituito una mera occasione non necessaria per la condotta. Il caso: Tizio, idraulico incaricato del controllo di alcune tubature nell’appartamento di Caio – custode dello stabile condominiale – veniva da questi violentemente percosso e riportava gravi lesioni. A seguito del fatto, Tizio citava in giudizio sia Caio sia il condominio invocandone la responsabilità ai sensi dell'art. 2049 del codice civile che prevede che “i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”. In questo caso il condominio può considerarsi responsabile del fatto illecito posto in essere dal portiere? Come è noto, l’art. 2049 del codice civile dispone che i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dai loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti. Occupandosi delle gravi lesioni provocate a un condomino dal comportamento violento del portiere dello stabile condominiale e della conseguente applicabilità alla fattispecie dell'art. 2049 c.c., la Corte ha concluso doversi escludere la responsabilità del Condominio per il fatto doloso del portiere – o altro dipendente o assimilato - nel corso dello svolgimento delle relative mansioni "quando la relativa condotta sia del tutto avulsa dalle mansioni affidate e l’espletamento di quelle abbia costituito una mera occasione non necessaria per la condotta". Ha precisato che "il fatto che la responsabilità del preponente possa sussistere anche se il preposto abbia operato oltrepassando i limiti delle proprie mansioni o abbia agito all’insaputa del primo non consente di ritenere operativa la previsione dell’art. 2049 c.c., quando il fatto illecito sia avvenuto senza il benchè minimo collegamento funzionale con l’attività lavorativa (Cass., ord. 30 giugno 2015, n. 13425), ovvero quando la condotta abbia risposto ad esigenze meramente personali dell’agente. Infatti, "al contrario di quanto previsto dagli artt. 2048 e 2051 cod. civ., la responsabilità in esame prescinde del tutto da una culpa in eligendo o in vigilando del datore di lavoro o preponente ed è quindi insensibile all’eventuale dimostrazione dell’assenza di colpa (Cass. 16 marzo 2010, n. 6325; Cass. 29 agosto 1995, n. 9100), ...in estrinsecazione del principio “cuius commoda eius et incommoda”, secondo il quale del danno causato dal dipendente deve rispondere colui che normalmente trae vantaggio dal rapporto con il preposto. Se questa è la giustificazione di una simile responsabilità, è evidente che le condotte del preposto le cui conseguenze possa sopportare il preponente debbono essere in qualche modo collegate alle ragioni, anche economiche, della preposizione e ricondursi al novero delle normali potenzialità di sviluppo di queste, se del caso considerate alla stregua dell’ordinaria responsabilità per colpa collegata alla violazione dell’altrui affidamento. E’, in tal senso, significativo che la più recente giurisprudenza abbia precisato (Cass. 23448/14, cit.) che l’automatismo dell’insorgenza della responsabilità del preponente si attenua a mano a mano che la condotta del preposto si allontana dalle mansioni e dalle incombenze, tanto che l’art. 2049 c.c., può trovare applicazione per l’operatività dell’ulteriore principio dell’apparenza del diritto circa la corrispondenza della condotta alle mansioni ed incombenze.." Corte di Cassazione Sezione III Civile, n. 11816 del 9 giugno 2016 AVVERTENZA PER IL LETTORE: Questo scritto non approfondisce tutti gli aspetti controversi della questione trattata. Quando hai un problema non accontentarti mai della lettura di saggi o articoli sul web anche perché il diritto è in continua evoluzione e il medesimo fatto potrebbe avere una qualificazione giuridica diversa a distanza di anni. Rivolgiti sempre ad un professionista : lui sa come prevenire i rischi ed evitare i numerosi pericoli che si annidano ovunque e conosce la strada migliore per tutelare adeguatamente i tuoi diritti.
I patti successori e la loro nullita’
Pubblicato su IUSTLABLa Corte di Cassazione, sezione II civile, con sentenza 15 luglio 2016, n. 14566, pres. Mazzacane, rel. Scarpa, ha affermato che "configura un patto successorio vietato dall”articolo 458 c.c., l'atto con il quale due soggetti, nella specie, fratello e sorella, si attribuiscano le rispettive quote della proprietà di un immobile oggetto di futura comunione ereditaria. Dopo aver rammentato che, "per stabilire ...se una determinata pattuizione ricada sotto la comminatoria di nullità” di cui all’articolo 458 c.c., occorre accertare: 1) se il vincolo giuridico con essa creato abbia avuto la specifica finalità di costituire, modificare, trasmettere o estinguere diritti relativi ad una successione non ancora aperta; 2) se la cosa o i diritti formanti oggetto della convenzione siano stati considerati dai contraenti come entità comprese nella futura successione; 3) se i disponenti abbiano contrattato o stipulato come aventi diritto alla successione stessa; 4) se l’assetto negoziale convenuto debba aver luogo “mortis causa” (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1683 del 16/02/1995; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2619 del 09/07/1976), la Corte di Cassazione, sezione II civile, con sentenza 15 luglio 2016, n. 14566, ha affermato che " configura un patto successorio vietato dall’articolo 458 c.c., l'atto con il quale due soggetti, nella specie, fratello e sorella, si attribuiscano le rispettive quote della proprietà ” di un immobile oggetto di futura comunione ereditaria, con l’intento di disporre dei diritti che ai sottoscrittori potrebbero spettare sulla successione non ancora aperta del loro genitore. Dà parimenti luogo ad un invalido patto successorio dispositivo (avendo, come suo elemento essenziale, l’intenzione delle parti di regolamentare la disponibilità di un bene che esse, allo stato, riconoscono essere altrui e che prevedono diventerà in futuro di loro pertinenza mortis causa) l'accordo stipulato fra gli aspiranti coeredi di rimanere in comunione, ex articolo 1111 c.c., comma 2, in quanto correlato al recupero della piena disponibilità dell’immobile a seguito dell'estinzione dell'usufrutto gravante su di esso. AVVERTENZA PER IL LETTORE: Questo scritto non approfondisce tutti gli aspetti controversi della questione trattata. Quando hai un problema non accontentarti mai della lettura di saggi o articoli sul web anche perché il diritto è in continua evoluzione e il medesimo fatto potrebbe avere una qualificazione giuridica diversa a distanza di anni. Rivolgiti sempre ad un professionista : lui sa come prevenire i rischi ed evitare i numerosi pericoli che si annidano ovunque e conosce la strada migliore per tutelare adeguatamente i tuoi diritti.
Termine essenziale nel rapporto con il professionista
Pubblicato su IUSTLABStiamo ristrutturando casa e abbiamo affidato l’incarico della direzione dei lavori ad un architetto. Nel contratto abbiamo precisato espressamente che i lavori dovranno concludersi “entro e non oltre” una certa data; data in cui dovremo abbandonare la soluzione abitativa transitoria adottata durante l’esecuzione dei lavori. Immaginiamo di aver ottenuto di abitare la casa di un nostro parente quale grazioso atto di generosità, ma solo fino ad una certa data (che è poi quella che abbiamo indicato nel contratto con il professionista). Ci troviamo di fronte ad un termine essenziale, istituto giuridico disciplinato dall’art. 1457 del codice civile. Detta norma stabilisce che “se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale nell'interesse dell'altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole esigerne l'esecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all'altra parte entro tre giorni. In mancanza, il contratto s'intende risoluto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione .” Nel nostro caso tale termine è da considerare senza dubbio essenziale in quanto risulta inequivocabilmente – anche attraverso l’espressione “entro e non oltre” - la volontà delle parti di ritenere perduta l'utilità economica del contratto con l'inutile decorso del termine medesimo (Cassazione civile sez. II 26 marzo 2018 n. 7450). E’ opportuno però precisare che al fine di non incappare in equivoci e difficoltà probatorie, è bene che risulti testualmente che il termine essenziale sia stabilito in favore di una parte e, quindi, a carico dell’altra. In effetti se lasciamo la casa di quel nostro parente e la nostra non è ancora pronta per essere occupata a causa del ritardo del professionista incaricato, saremo inevitabilmente costretti a prendere in locazione altro immobile oppure rivolgerci ad una struttura alberghiera, con un enorme aggravio di spesa e l’accollo di disagi e patemi. Ecco che il contratto deve considerarsi risolto di diritto per l’inosservanza del termine essenziale per l’adempimento, con la conseguenza che i reciproci obblighi delle parti si estinguono e possiamo rivolgerci ad altro professionista senza temere che il rapporto con il suo predecessore inadempiente sia ancora in essere. Attenti però: se dopo la scadenza del termine prendiamo a sollecitare il prestatore d’opera affinchè dia corso all’adempimento del contratto, allora avremo rinunciato ad avvalerci del termine essenziale e il contratto non potrà intendersi risolto “ipso iure”. In proposito la giurisprudenza di legittimità e di merito afferma che la previsione di un termine essenziale per l'adempimento di un contratto, essendo posto nell'interesse di uno o di entrambi i contraenti, non preclude alla parte interessata la rinuncia ad avvalersene. Rinuncia che può essere manifesta o può risultare da atti univoci - i cosiddetti “facta concludentia” - dai quali possa desumersi che il creditore abbia ritenuto più conforme ai propri interessi procedere all'esecuzione del contratto piuttosto che avvalersi della risoluzione di diritto, come quando abbia sollecitato o comunque accettato l'adempimento tardivo (Cassazione civile sez. II 05 luglio 2013 n. 16880; Cassazione civile sez. II 06 luglio 1990 n. 7150). La parte che abbia rinunciato al termine essenziale originariamente posto in proprio favore, non può così invocare la risoluzione di diritto conseguente al mancato tempestivo adempimento della controparte. Tale inadempimento potrebbe però sempre rilevare ad altri fini, come l'esercizio dell'azione generale di risoluzione e/o dell'azione risarcitoria. AVVERTENZA PER IL LETTORE: Questo scritto non approfondisce tutti gli aspetti controversi della questione trattata. Quando hai un problema non accontentarti mai della lettura di saggi o articoli sul web anche perché il diritto è in continua evoluzione e il medesimo fatto potrebbe avere una qualificazione giuridica diversa a distanza di anni. Rivolgiti sempre ad un professionista : lui sa come prevenire i rischi ed evitare i numerosi pericoli che si annidano ovunque e conosce la strada migliore per tutelare adeguatamente i tuoi diritti.
Crociera andata male
Pubblicato su IUSTLABIl Caso: nel mese di settembre 2016 la Sig.ra Tizia accettava l’offerta commerciale proposta sul sito web di un tour operator online avente ad oggetto l’acquisto di un pacchetto turistico comprendente un viaggio per due persone con soggiorno in nave da crociera nel Mar dei Caraibi - con partenza dalla Florida, USA nel mese di gennaio 2017 - e, contestualmente, versava un acconto sul corrispettivo totale. Corrispettivo poi saldato interamente nel mese di dicembre 2016. Il pacchetto turistico in oggetto includeva, tra l’altro, tutti i necessari spostamenti in aereo per consentire alla sig.ra Tizia e al suo accompagnatore Caio, di raggiungere il luogo di partenza della nave da Bari e per ivi fare ritorno dalla Florida alla conclusione del tour caraibico. In particolare veniva ordinata l’emissione dei biglietti per i seguenti spostamenti in aereo: 1) volo con partenza da Bari e con arrivo a Roma Fiumicino; 2) volo con partenza da Roma Fiumicino e con arrivo a Miami; 3) volo di ritorno con partenza da Miami e con arrivo a Roma Fiumicino; 4) volo con da Roma Fiumicino e con arrivo a Bari. Il giorno stabilito per la partenza, Tizia e Caio si presentavano allo sportello check-in della compagnia aerea designata nell’aeroporto di Bari-Palese dove ritiravano i titoli di viaggio e, nonostante l’ondata di forte maltempo che si stava già abbattendo su tutta la Puglia (una straordinaria tormenta di neve), venivano condotti a bordo dell’aeromobile che li avrebbe portati a Roma Fiumicino. Trascorso un lungo lasso di tempo di attesa a bordo dell’aereo, tutti i passeggeri, informati del fatto che il decollo sarebbe stato rimandato in attesa che la brusca tempesta volgesse al termine, venivano invitati ad abbandonare l’aeroplano. Tuttavia le condizioni meteorologiche non miglioravano affatto tanto che, dopo altre ore di attesa all’interno del gate aeroportuale, la sig.ra Tizia apprendeva che il volo Bari-Roma veniva cancellato definitivamente. Ciò chiaramente impediva la fruizione dell’intero pacchetto turistico acquistato per via della impossibilità di raggiungere il porto di imbarco in Florida a causa della perdita della coincidenza con l’altro volo con partenza da Roma. Il tour operator comunicava a Tizia che non sarebbe stato possibile restituire il prezzo pagato per il pacchetto turistico acquistato, in quanto la mancata fruizione di quest’ultimo non era dipesa da cause imputabili a sè. La sig.ra Tizia, intendendo ottenere la restituzione dell’intera somma pagata in favore del tour operator online a titolo di prezzo per il pacchetto turistico non più fruito, si rivolgeva dal proprio legale. La norma fondamentale in materia è quella espressa dal combinato disposto degli artt. 1256 e 1463 del codice civile; il primo predica che “ La obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile ”. Ed in effetti si era reso assolutamente impossibile per Tizia ovviare all’inconveniente meteorologico che aveva causato la cancellazione del volo da Bari a Roma. Essa, infatti, con diligenza e scrupolosità, non aveva mancato di vagliare tutte le possibili alternative teoricamente idonee a raggiungere l’aeroporto di Roma come autobus e treno; ma tali opzioni si erano rivelate del tutto inadeguate in quanto avrebbero implicato un eccessivo dispendio di tempo tale da far perdere alla sig.ra Tizia e al suo accompagnatore l’aereo in partenza da Roma con destinazione Florida. Appurata, quindi, l’estinzione dell’obbligazione per impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile al debitore, occorre considerare che, a norma dell’art. 1463 del codice civile, “ nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta , secondo le norme relative alla ripetizione dell'indebito .” Era evidente, pertanto, che il tour operator doveva restituire la somma indebitamente trattenuta a titolo di corrispettivo di un pacchetto turistico mai fruito da parte degli sfortunati viaggiatori. A fronte di una siffatta qualificazione giuridica dei fatti, il legale della sig.ra Tizia, a seguito dello scambio di corrispondenza con l’operatore turistico e dopo aver inviato allo stesso un invito alla stipula della negoziazione con l’assistenza di un avvocato, riusciva ad ottenere dal debitore la restituzione di tutte le somme dovute in favore della cliente. AVVERTENZA PER IL LETTORE: Questo scritto non approfondisce tutti gli aspetti controversi della questione trattata. Quando hai un problema non accontentarti mai della lettura di saggi o articoli sul web anche perché il diritto è in continua evoluzione e il medesimo fatto potrebbe avere una qualificazione giuridica diversa a distanza di anni. Rivolgiti sempre ad un professionista : lui sa come prevenire i rischi ed evitare i numerosi pericoli che si annidano ovunque e conosce la strada migliore per tutelare adeguatamente i tuoi diritti.
Edificio costruito dai coniugi su suolo del marito. Che fare in caso di separazione?
Pubblicato su IUSTLABIl caso: A distanza di tre anni dal matrimonio Tizio e Mevia, coniugi in regime di comunione legale, edificavano, ciascuno con il proprio patrimonio proveniente dall’attività lavorativa esercitata da prima del matrimonio, un immobile adibito a casa familiare su un suolo unicamente ereditato da Tizio. Nel febbraio 2013, intervenuta la separazione di fatto tra i due, a seguito della quale Mevia si trasferiva presso la residenza del suo nuovo partner, Tizio conseguiva il possesso esclusivo dell’immobile suddetto. A seguito di ciò, intenzionato ad impedire a Mevia di accedere all’immobile, Tizio provvedeva a cedere in favore di un terzo metà del detto immobile, tramite stipula di regolare contratto preliminare di vendita ritualmente trascritto. Con istanza del 21/09/2013 Mevia invitava in mediazione Tizio affermando il proprio diritto di proprietà sull’immobile de quo a suo dire ricadente in comunione legale nonché l’invalidità del contratto preliminare concluso da Tizio unilateralmente senza il suo preventivo consenso, oltre al rimborso delle somme in parte prelevate dal patrimonio comune in parte corrisposte dalla stessa a titolo personale per la realizzazione di detto edificio. Fallito il tentativo di mediazione Mevia si rivolge al suo legale di fiducia al fine di valutare l’opportunità di un eventuale giudizio. **** La prima questione di diritto che si rivela controversa riguarda la effettiva titolarità dell’immobile, già adibito a casa familiare, edificato dai coniugi Tizio e Mevia, i quali hanno contribuito ognuno con il proprio patrimonio personale, e che sorge su un suolo di esclusiva proprietà di Tizio. Per sciogliere questo nodo occorre indagare sulla diversa rilevanza giuridica, all’interno dell’ordinamento, dei due elementi di diritto in apparente conflitto tra loro: la comune contribuzione alla edificazione dell’immobile e l’esclusività della proprietà del suolo edificatorio. Punto di partenza ottimale dell’analisi è la norma contenuta nell’art. 934 del codice civile che, regolamentando l’istituto dell’accessione legale, dispone letteralmente che “qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo “ . Tale norma non è altro che la diretta promanazione storica del principio espresso dal noto brocardo latino “superficies solo cedit”. La titolarità dell’immobile spetterebbe, così, a Tizio, il quale l’avrebbe acquistata per accessione ai sensi dell’art. 934 del codice civile essendo l’unico proprietario del suolo sul quale è stata realizzata la costruzione. E’ d’uopo a questo punto appurare se il principio normativo appena esposto subisce una qualche deroga nel caso in cui un altro soggetto partecipa alle spese di edificazione. Nell’art. 934 c.c. il legislatore ha inserito delle deroghe espresse tassative, accordando la prevalenza su detta norma alle disposizioni contenute negli artt. 935, 936, 937 e 938 del codice e a quanto è diversamente disposto dal titolo o dalla legge. E’ da escludersi a priori che possano trovare ingresso in questa sede le disposizioni normative di cui ai quattro articoli del codice appena menzionati, poiché essi esprimono un temperamento al principio dell’accessione che si giustifica soltanto se si verificano determinate circostanze di fatto che consistono, ad esempio, nell’impiego di materiale altrui per la costruzione o nella edificazione da parte di un terzo ecc.; circostanze che non ricorrono nel caso di specie. Non è, altresì, da ritenere esistente alcuna deroga convenzionale contenuta nel titolo di proprietà del suolo di Tizio (nulla è stato dedotto circa patti di costituzione di diritti di superficie in favore di terzi o altre convenzioni simili). Si è detto che l’elemento apparentemente in conflitto con l’istituto dell’accessione è rappresentato dalla compartecipazione alle spese di costruzione dell’edificio da parte dei coniugi in regime di comunione legale. L’articolo 177 del codice civile sancisce che, oltre agli altri beni, sono oggetto di comunione legale tra coniugi gli acquisti compiuti dai coniugi durante il matrimonio. Nessun elemento nella lettera della norma, seppure indiziario, disvela l’esistenza di alcuna disposizione idonea a derogare l’applicazione dell’accessione legale. La Suprema Corte è ormai allineata sull’orientamento interpretativo della norma che ammetterebbe l’inderogabilità dell’art. 934 c.c. da parte delle norme sulla comunione legale tra coniugi. Con sentenza n. 20508 del 2010, ha sentenziato che “ il principio generale dell’accessione posto dall’art. 934 c.c. non trova deroga nella disciplina della comunione legale tra in coniugi in quanto l’acquisto della proprietà per accessione avviene a titolo originario senza la necessità di un apposita manifestazione di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l’art. 177, I co., c.c. hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una natura negoziale, con la conseguenza che la costruzione realizzata in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno di essi è a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest’ultimo in virtù dei principi generali in materia di accessione.” (si vedano anche Cass. Civ. n. 8662 del 2008; Cass. Civ. n. 4716 del 1999; Cass. S.U. n. 651 del 1996; Cass.Civ n. 6222 del 1992). Per questi motivi, nessun dubbio sussiste in ordine alla titolarità di Tizio dell’immobile oggetto dell’odierna contesa ed essendo egli e solo egli stesso l’unico soggetto giuridico in grado di poter esercitare legittimamente la signoria sulla cosa, deve ritenersi legittimo ogni atto di disposizione su di essa nei limiti delle facoltà riconosciutegli dall’ordinamento. Non esula, evidentemente, da dette legittime facoltà la costituzione in capo a sé dell’obbligo di cedere una porzione di immobile attraverso la stipula di un contratto preliminare con un terzo. Sul terreno dei diritti reali la posizione giuridica di Mevia resta, dunque, irrimediabilmente sprovvista di tutela dal momento che la proprietà dell’edificio non ricade nella comunione legale. Il legislatore, tuttavia, ha predisposto una valida valvola di sfogo che offre una tutela di natura squisitamente obbligatoria, mediante la configurazione dell’istituto del pagamento dell’indebito oggettivo secondo l’articolo 2033 del codice civile. La stessa giurisprudenza di legittimità che ha interpretato il combinato disposto degli artt. 934 e 177 c.c nel senso dell’inderogabilità dell’accessione, è concorde nel ritenere applicabile la norma di cui all’art. 2033 c.c. alle fattispecie di questo tipo: così da un lato il coniuge che non si è giovato dell’accessione ha diritto alla restituzione delle somme di denaro proprie impiegate nella edificazione, dall’altro il coniuge proprietario è gravato dell’obbligo di restituire alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune occorse anch’esse alla costruzione del manufatto. Lo scopo della norma in esame è quello di tutelare chi ha fatto un pagamento non dovuto il quale ha diritto a ripetere ciò che ha pagato. Per pagamento non dovuto deve intendersi ogni pagamento effettuato in forza di un rapporto obbligatorio inesistente (ritenuto, ad esempio, esistente per errore) o divenuto inesistente. La norma di cui all’art. 2033 c.c., in effetti, pur essendo stata formulata con riferimento all’ipotesi di pagamento non dovuto ab origine , è applicabile in via analogica anche a quei casi in cui l’indebito oggettivo è sopravvenuto perchè è venuta meno la causa debendi , per qualsiasi ragione, in un momento successivo al pagamento (si veda, ex plurimis, Cass. Civ. S.U. n.5624 del 2009). Nel caso che ci occupa è lapalissiano che solo e soltanto il legame di convivenza tra i coniugi possa aver determinato, in passato, la comune partecipazione alle spese di costruzione dell’edificio; ed è altrettanto palese che, una volta cessata la convivenza, per la sopravvenuta separazione di fatto dei coniugi, è inevitabilmente cessata anche la causa negoziale di tali pagamenti, ancorché già effettuati. E’, pertanto, configurabile la sussistenza in capo a Mevia del diritto alla restituzione delle somme di denaro effettivamente impiegate, salvo provarle in giudizio. Nella domanda di ripetizione dell’indebito oggettivo, infatti, l’onere della prova grava sul creditore istante, il quale è tenuto a provare i fatti costitutivi della sua pretesa; e, dunque, sia l’avvenuto pagamento, sia la mancanza di una causa che lo giustifichi o il venir meno di questa, sia l’imputazione dei pagamenti a quel rapporto e non ad altri. Punto, quest’ultimo, sul quale non si pone alcun problema probatorio, poiché è una pacifica evidenza che le spese per la costruzione dell’edificio furono finalizzate alla costituzione di una consona vita familiare all’interno di esso; tanto basta per configurare il nesso eziologico tra i pagamenti e la causa debendi (Mevia, altresì, nulla sarebbe tenuta a provare in giudizio circa il venir meno della causa debendi, essendo la circostanza della separazione di fatto già di per sé idonea a provare la sua inesistenza sopravvenuta). Deve, pertanto, concludersi per la proponibilità della domanda giudiziale da parte di Mevia, che abbia esclusivamente ad oggetto la restituzione da parte di Tizio delle somme da essa versate a titolo personale, oltre alla ricostruzione del patrimonio comune con le somme da esso prelevate per la costruzione dell’edificio un tempo adibito a casa coniugale. AVVERTENZA PER IL LETTORE: Questo scritto non approfondisce tutti gli aspetti controversi della questione trattata. Quando hai un problema non accontentarti mai della lettura di saggi o articoli sul web anche perché il diritto è in continua evoluzione e il medesimo fatto potrebbe avere una qualificazione giuridica diversa a distanza di anni. Rivolgiti sempre ad un professionista : lui sa come prevenire i rischi ed evitare i numerosi pericoli che si annidano ovunque e conosce la strada migliore per tutelare adeguatamente i tuoi diritti.
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