Avvocato Francesco Guido a Cosenza

Francesco Guido

Avv. penalista e civilista esperto in diritto di famiglia, assicurazioni, successioni

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La condizione testamentaria di contrarre matrimonio: lecita o illecita?

Scritto da: Francesco Guido - Pubblicato su IUSTLAB

Pubblicazione legale:

Uno dei limiti imposti dall’ordinamento alla libertà testamentaria è racchiuso nell’art. 634 c.c. che considera non apposte le condizioni impossibili e quelle illecite, cioè contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume, salvo che abbiano costituito l’unico motivo che abbia determinato il testatore a disporre, nel qual caso la disposizione testamentaria è nulla.

Si può, pertanto, considerare l’art. 634 c.c. alla stregua di un principio generale in tema di successioni, mentre il successivo art. 636 c.c., relativo al divieto disposto dal testatore che l’erede contragga matrimonio, ne è una specificazione e, segnatamente rientra tra le condizioni illecite.

Si, pertanto, posto un limite al favor testamenti cui è generalmente improntato l’ordinamento al fine  di evitare disposizioni testamentarie volte a determinare un’illecita pressione psicologica sul beneficiario, al fine di indurlo a compiere quanto richiestogli dal testatore, se vuole conseguire il beneficio.

In altri termini si è inteso impedire l’istituzione di erede possa risolversi in un’indebita coartazione.  

Particolarmente controverso sotto il profilo giurisprudenziale e fonte di acceso dibattito dottrinario è, invece, il caso di segno opposto, cioè l’ipotesi in cui la condizione apposta ad una disposizione testamentaria subordini l’efficacia della stessa alla circostanza che l’istituito contragga matrimonio.

L’oscillazione interpretativa da parte della dottrina e della giurisprudenza, le cui rispettive e confliggenti posizioni sono infra illustrate, nasce anche in relazione al dato di fatto per cui – a differenza del divieto di contrarre matrimonio -  non è espressamente prevista alcuna disposizione normativa che ponga il divieto di sottoporre l’istituzione di erede alla condizione sospensiva che l’onorato contragga matrimonio.

Il 1° comma dell’art. 636 c.c. definendo: “illecita la condizione che impedisce le prime nozze o le ulteriori” nulla dice, difatti, circa l’ipotesi contraria in cui il de cuius subordini l’efficacia della disposizione testamentaria alla condizione che il beneficiario si sposi.

Il giudice di legittimità ha precisato che l’art. 636, 1° comma c.c., ha la scopo di tutelare la libertà della persona di contrarre matrimonio e non è quindi violata nei casi in cui la condizione non sia dettata al fine di impedire le nozze, ma preveda per l’istituito un trattamento più favorevole in caso di mancato matrimonio e, senza per ciò influire sulle relative decisioni, abbia di mira di provvedere, nel modo più adeguato alle esigenze dell’istituito, connesse ad una scelta di vita che lo privi degli aiuti materiali e morali di cui avrebbe potuto godere con il matrimonio (Cass. Civ. 92/2122).

Nessuno dubita, invece, circa l’illiceità della condizione quando contenga un divieto assoluto di nozze, nel qual caso la condizione si considera non apposta ex art. 634 c.c. (C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, Milano, 1974).

Alcuni autori hanno rilevato che la condizione di cui all’art. 636 c.c. sarebbe valida qualora il divieto sia relativo perché, ad esempio, impedisce il matrimonio con una determinata persona o fino al raggiungimento di una certa età (C. Giannattasio, Delle successioni. Successioni testamentarie, Torino, 1978). 

La tematica dei divieti relativi di nozze è stata, inoltre, oggetto di pronunce giurisprudenziali che, secondo un orientamento conforme alle suddette opinioni dottrinarie, ha ritenuto lecita la condizione con la quale il de cuius abbia, in realtà, inteso semplicemente circoscrivere l’ambito di indeterminatezza delle persone da sposare, senza impedire in assoluto il matrimonio.

In questa ipotesi si tratterebbe, in altri termini, di limitare la scelta, determinando nel beneficiario una coazione psichica ritenuta dalla giurisprudenza “tollerabile in quanto di modeste proporzioni”, come, ad esempio, nel caso della condizione che impedisca all’istituito l’unione con una determinata persona in quanto non ne lederebbe la libera autodeterminazione (Cass. Civ. 19 gennaio 1985, n. 150; Cass. Civ. 11 gennaio 1986, n. 102).

Accanto alla posizione di chi ha ritenuto illecito il divieto assoluto ed, invece, valido il divieto relativo, vi è chi ha fatto notare che l’art. 636 c.c., posto a tutela della libertà matrimoniale dell’erede o del legatario, non indica distinzioni o differenti discipline a seconda che il divieto disposto dal testatore sia assoluto o relativo, ragion per cui detta distinzione sarebbe addirittura “lesiva della dignità umana” (B. Toti, Condizioni testamentarie e libertà personale, Milano, 2004).

Secondo l’Autore l’illiceità delle condizioni dirette a limitare la libertà matrimoniale è da rinvenire nello stesso significato ontologico del matrimonio, quale vicenda personalissima dell’individuo, insuscettibile di essere dedotta in condizione,  a prescindere dai motivi, anche se intrinsecamente leciti o meritevoli, che hanno indotto il de cuius a disporre.

Dunque, secondo tale impostazione, fondata sulla tesi della tutela incondizionata delle libertà individuali garantite dalla Costituzione, anche i divieti relativi sono illeciti e le inerenti condizioni si considerano come non apposte.

Più articolato è, invece, il dibattito relativo all’ipotesi in cui il testatore abbia previsto l’opposta condizione, cioè che l’istituito contragga matrimonio.

La condizione sospensiva, apposta a una disposizione testamentaria, di contrarre matrimonio con persona appartenente alla stessa classe sociale dell’istituito, è stata considerata lecita e, quindi, pienamente valida ed efficace in quanto lascia al beneficiario un ampio margine di scelta e di libera autodeterminazione e non importa alcuna limitazione psichica intollerabile che, come tale, sarebbe contraria all’ordine pubblico.

Né detta condizione contrasta con gli artt. 3 e 29 della Costituzione perché di tali norme, quella dell’art. 29, la quale stabilisce che il matrimonio è fondato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ha esclusivo riguardo alla posizione dei medesimi nell’ambito della famiglia, mente l’art. 3, il quale sancisce il principio dell’eguaglianza, tende ad una finalità (compenetrazione delle classi sociali) estranea alla questione dei limiti di validità della condizione testamentaria (Cass. Civ. 102/86).

Altra pronuncia della Suprema Corte ha, inoltre, affermato che non incorre nell’illiceità prevista dall’art. 636 c.c., la condizione di contrarre matrimonio apposta dal testatore alle attribuzioni fatte all’erede e neppure la condizione di non contrarre matrimonio con persona determinata (Cass. Civ. 150/85). Segnatamente la Suprema Corte ha argomentato che la condizione di contrarre matrimonio, risolutivamente apposta al legato, è lecita e valida e non cela una sostituzione fedecommissaria (similmente alla clausola “si sine liberis decesserit”) se manchi nel testatore la consapevole certezza che la persona onorata non avrebbe contratto matrimonio.

Inoltre la medesima pronuncia ha ritenuto valida la condizione di contrarre matrimonio, anche perché è stato ritenuto istituto favorito e tutelato dall’ordinamento giuridico.

Da parte di altra giurisprudenza è stata, al contrario, ritenuta illecita in quanto contraria a norme imperative e all’ordine pubblico, ex art. 634 c.c., la condizione apposta ad una disposizione testamentaria che subordini l’efficacia della stessa alla circostanza che l’istituito contragga matrimonio (Cass. Civ., sez. II, n. 8941 del 15.04.2009). Nella specie la Suprema Corte ha precisato che la circostanza è illecita in quanto contraria al principio di libertà matrimoniale tutelato dagli artt. 2 e 29 della Costituzione. Essa, pertanto, si considera non apposta, a meno che non sia stato l’unico motivo determinante della volontà del testatore, nel qual caso rende nulla la disposizione testamentaria.

Parimenti illecita è stata considerata la condizione apposta ad una chiamata all’eredità che preveda per l’istituto l’obbligo di sposare una determinata persona, in quanto coarta in modo assoluto la libertà personale (Cass. Civ. 1633/53).

Conformemente a quanto precede, secondo una parte della dottrina (G. Caramazza, Delle successioni testamentarie, in Commento teorico- pratico al Codice Civile diretto da V. De Martino, Novara, 1982; G. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2009) e della giurisprudenza sono illecite tutte le condizioni dirette a coartare la libertà di autodeterminarsi del beneficiario di una disposizione testamentaria in ordine ad una scelta personalissima come quella di unirsi in matrimonio ( nello stesso senso la giurisprudenza di legittimità: Cass. Civ. 30 maggio 1953, n. 1633; Cass. Civ. 24 giugno 1959, n. 1990).

Opinione del medesimo segno è stata espressa da quella parte della dottrina che ha ritenuto illecita qualunque fattispecie in cui la volontà del beneficiario  relativa alla decisione di unirsi in matrimonio sia condizionata dal testatore  a fronte dell’eventualità di acquisire o perdere un lascito testamentario (B. Toti, Condizioni testamentarie e libertà personale, Milano, 2004).

Altro Autore (N. Di Mauro, Illiceità della condizione testamentaria di contrarre matrimonio: la Cassazione apre alla drittwirkung per le successioni mortis causa, in Famiglia, persone, successioni 2009)  ha osservato che la condizione in questione sarebbe illecita non solo per la violazione degli artt. 2 e 29 della Costituzione, bensì anche in virtù di quanto previsto dall’art. 16 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948 e  dall’art. 12 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva in Italia con la legge n. 848 del 4 agosto 1955 ed oggi anche dall’art. 9 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000.

Anche la Corte Costituzionale, in una serie di pronunce relativamente risalenti, ha precisato che il vincolo matrimoniale è, e deve rimanere, frutto della libera autodeterminazione, attenendo ai diritti intrinseci della persona umana e, pertanto, si sottrae ad ogni forma di condizionamento, anche indiretto (Corte Cost. 1/1992; Corte Coast. 450/1991/; Corte Cost. 189/1991).

Autorevole dottrina contraria all’ammissibilità della condizione di contrarre matrimonio l’ha definita: “ripugnante tentativo del testatore di coartare in qualsiasi modo la libertà di autodeterminazione dell’onorato” (L. Bigliazzi-Geri, Successioni testamentarie, Zanichelli, 1997).

In senso conforme, cioè favorevoli a negare risolutamente la liceità della condizione matrimoniale, quale intollerabile coartazione delle volontà dell’istituito, si sono espressi anche Rescigno, Caramazza, Di Mauro, Carusi, Toti e Galgano.

 E’ comunque da riferire che, nonostante le richiamate opinioni della dottrina prevalente e le pronunce giurisprudenziali sin qui illustrate, a modesto parere dello scrivente rimane, comunque, preferibile la tesi della liceità della condizione sospensiva che subordini l’istituzione di erede alle nozze dell’istituito.

Sempre in senso favorevole, in dottrina, si è fatto (ragionevolmente) leva sull’interpretazione “ex adverso” dell’art. 636 c.c., argomentando che, se lo scopo del legislatore era quello di affermare il disvalore della condizione avente ad oggetto il divieto di nozze, “a contrario” deve ritenersi valida ( e forse addirittura giuridicamente meritevole di tutela) la condizione che preveda le preveda (C. Giannattasio, Commentario del Codice Civile. Libro II – Delle successioni, Torino, 1968).

E’ inoltre da ritenere che la menzionata dottrina, per quanto autorevolissima, sia incorsa in una sopravvalutazione dell’istituto del matrimonio, certamente e, forse, inevitabilmente, condizionata da fattori socio-culturali oramai anacronistici in quanto caratterizzanti la prima metà dello scorso secolo ove, senz’altro, l’istituto godeva di una “sacralità” della determinazione che più non si attaglia ala mutata concezione odierna ed è, anzi, da ritenere sicuramente superata.

A parere dello scrivente non si vede, difatti, quale concreto ed effettivo potere coattivo il testatore potrebbe esercitare sull’istituito il quale, resterebbe pur sempre libero di individuare quale sia la persona da sposare ed in quale momento della vita celebrare le nozze, fermo restando che qualora fosse, invece, determinato a non contrarre il matrimonio, ben potrebbe rinunciare al compendio del lascito testamentario.  

Ciò nonostante l’autore R. Triola, Il testamento, in Pratica Giuridica, Giurisprudenza e dottrina diretta da O. Fanelli, Giuffré editore, 2012, ha eccepito che: né varrebbe opporre il rilievo secondo cui la condizione testamentaria non sarebbe idonea a ledere la libertà personale dell’istituito, che rimarrebbe arbitro delle scelte fondamentali della propria vita, cui potrebbe, al più, conseguire la mancata attribuzione patrimoniale”. Ciò in quanto, ha argomentato l’autore, la pur indiretta coartazione della libertà reca, di per sé, “vulnus” alla dignità dell’individuo, nella misura in cui l’alternativa di fronte alla quale lo colloca l’apposizione del testatore della condizione testamentaria, possa indurlo, con la prospettiva di un vantaggio economico, ad una opzione che limita la libera esplicazione della sua personalità.  

In senso contrario si è argomentato (Vairoletti, l’illiceità della condizione ci contrarre matrimonio, in Giur.it 2010) che per quanto sia apprezzabile l’intento di esaltare le libertà fondamentali dell’individuo “appare forzato il volere sempre e comunque dare prevalente peso ai diritti dell’istituito, seppur costituzionalmente riconosciuti, a discapito della volontà del de cuius, soprattutto se si considera il fatto che già il legislatore si è preoccupato di proteggere gli interessi de legittimari riservando loro una quota di beni dell’asse ereditario, anche contro la stessa volontà del testatore, il quale, pertanto, dovrebbe essere per lo meno libero di lasciare le altre sostanze a chi vuole anche manifestando un desiderio che gli era caro in vita, ad esempio il matrimonio dell’istituito”.

Si è, altresì, sostenuto (Achille, condizione testamentaria illegittima, regola sabiniana e limitazione della libertà matrimoniale, in Riv. Dir. Civ., 2010) che la valutazione della illiceità di una condizione mal si adatta a conclusioni generalizzate.

In primo luogo vi è da chiedersi se dietro le scelte del legislatore intorno all’art. 636 c.c. non vi sia una precisa idea tesa a mantenere fuori dal giudizio di illiceità la condizione che il beneficiario sia sposato.

In secondo luogo non sembra preclusa una differenziazione delle attribuzioni patrimoniali contenute in un testamento in funzione di una determinata situazione, nel senso che sembra naturale plasmare le attribuzioni patrimoniali ex testamento, in funzione, ad esempio, degli aggravi economici che possono derivare dall’avere o meno una famiglia.

In tale prospettiva, un criterio oggettivo di valutazione potrebbe essere fornito dal rapporto tra il vantaggio patrimoniale ottenibile con il lascito testamentario ed il sacrificio della libertà personale, in modo che, qualora la perdita in termini di libertà personale non sia proporzionata al vantaggio patrimoniale del lascito, la condizione dovrebbe ritenersi illecita, mentre, al contrario, nel caso in cui il vantaggio sia ragionevolmente proporzionato alla perdita di libertà subita, la condizione dovrà essere ritenuta lecita.

In ultimo, almeno a parere dello scrivente, pur volendo prescindere dalla fondatezza o meno delle ricostruzioni dottrinarie sin qui illustrate, l’argomento realmente insuperabile  che depone a favore della liceità della condizione di contrarre matrimonio, è anche il meno invocato dagli autori: la donazione in riguardo di matrimonio, alias donazione obnuziale, ex art. 785 c.c.

Si tratta di un negozio formale tipico previsto dal legislatore, avente ad oggetto la prospettazione patrimoniale a carattere di liberalità fatta dal donante o dai donanti con il precipuo fine che il donatario (o i donatari, se beneficiari sono entrambi gli sposi) contragga un determinato matrimonio.

E’ quindi una donazione espressamente sottoposta alla condizione sospensiva di contrarre un futuro e ben individuato matrimonio, fermo restando che: “non produce effetto finché non segua il matrimonio” (1° comma) e che “l’annullamento del matrimonio importa la nullità della donazione” (2° comma).

Il primo comma dell’art. 785 c.c. chiarisce che la condizione sospensiva deve considerarsi caducata qualora non si realizzi il matrimonio.

Ne consegue che non si realizza l’effetto traslativo del donatum dal donante al donatario.

Inoltre la nullità sopravvenuta della donazione, per il caso di annullamento del matrimonio, ha carattere retroattivo ed importa la possibilità per il donante di esperire l’azione di restituzione o di rivendicazione o, ancora, l’azione di accertamento della proprietà, finalizzate a riacquisire i beni donati.

A fronte del particolare regime di favore che il legislatore ha riconosciuto alla volontà del donante di trasferire al donatario taluni beni, a condizione che questi contragga matrimonio, non è dato comprendere in virtù di quale ragionamento la stessa condizione dovrebbe ritenersi illecita – ed anzi addirittura “ripugnante” - se prevista dal testatore.  

Né potrebbe farsi valere l’eccezione secondo cui la donazione obnuziale è prospettata, normalmente, allorquando il donatario è già autonomamente determinato a contrarre matrimonio, motivo per cui il fattore condizionante non potrebbe essere costituito dall’evenienza di perdere il vantaggio patrimoniale. 

Difatti qualora il compendio del donatum fosse consistente ed, una volta prospettata la donazione, venissero poi a mancare i presupposti per celebrare le nozze, il donatario sarebbe senz’altro condizionato dall’evenienza di perdere il beneficio.

Per tali ragioni può concludersi che particolarmente convincente appare la ricostruzione di quella dottrina che ha ritenuto un criterio oggettivo di valutazione il rapporto tra il vantaggio patrimoniale ottenibile con il lascito testamentario ed il sacrificio della libertà personale, in modo che, qualora la perdita in termini di libertà personale non sia proporzionata al vantaggio patrimoniale del lascito, la condizione dovrebbe ritenersi illecita, mentre, al contrario, nel caso in cui il vantaggio sia ragionevolmente proporzionato alla perdita di libertà subita, la condizione dovrà essere ritenuta lecita (Achille, condizione testamentaria illegittima, regola sabiniana e limitazione della libertà matrimoniale, in Riv. Dir. Civ., 2010).

 

 Bibliografia:

S. Merz, Manuale pratico e formulario delle successioni, Cedam, 2011

G. Caramazza, Delle successioni testamentarie, in Commento teorico- pratico al Codice Civile diretto da V. De Martino, Novara, 1982

G. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2009

C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, Milano, 1974

C. Giannattasio, Delle successioni. Successioni testamentarie, Torino, 1978

L. Mambelli – J. Balottin, Glossario Notarile per Consiglio Notarile di Mantova, Milano, 2013

B. Toti, Condizioni testamentarie e libertà personale, Milano, 2004

N. Di Mauro, Illiceità della condizione testamentaria di contrarre matrimonio: la Cassazione apre alla drittwirkung per le successioni mortis causa, in Famiglia, persone, successioni 2009

R. Triola, Il testamento, in Pratica Giuridica, Giurisprudenza e dottrina diretta da O. Fanelli, Giuffré editore, 2012

C. Giannattasio, Commentario del Codice Civile. Libro II – Delle successioni, Torino, 1968

L. Bigliazzi-Geri, Successioni testamentarie, Zanichelli, 1997

Vairoletti, l’illiceità della condizione ci contrarre matrimonio, 2010)

Achille, condizione testamentaria illegittima, regola sabiniana e limitazione della libertà matrimoniale, in Riv. Dir. Civ., 2010


Avv. Francesco Guido - Avv. penalista e civilista esperto in diritto di famiglia, assicurazioni, successioni

Ho esperienza settoriale in materia di diritto penale per colpa medica e reati contro la persona mentre in diritto civile mi occupo di famiglia e minori, volontaria giurisdizione, assicurazioni, successioni e donazioni. Tratto ampia casistica in tema di modifica accordi di separazione e divorzio, nonché separazione tra coniugi e regime di affidamento dei minori. Sono legale di fiducia di un sindacato autonomo in materia di professioni sanitarie. Dopo la laurea presso l'Università di Roma Tor Vergata, ho conseguito la specializzazione ad indirizzo notarile presso l'Università Magna Graecia di Catanzaro.




Francesco Guido

Esperienza


Diritto civile

Sono autore di una tesi di laurea monografica in Diritto Civile dal titolo "Dichiarazioni inesatte e reticenti nel contratto di assicurazione", relatore il Chiarissimo Prof. Paolo Papanti Pelletier - Ordinario di diritto civile presso l'Ateneo di Roma "Tor Vergata" ove ho conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza nell'anno 2013. Ho conseguito il diploma di specializzazione ad indirizzo notarile presso la S.S.P.P.L. dell'Università "Magna Graecia" di Catanzaro, oltre ad avere frequentato uno studio notarile in Cosenza per uno stage con rilascio di attestato di frequenza. Studio da anni per il concorso notarile.


Diritto di famiglia

Mi occupo quotidianamente di tutti gli aspetti del diritto di famiglia e di volontaria giurisdizione, conferendo peculiare centralità alle separazioni, ai divorzi ed ai c.d. "diritti contesi" dei minori, aggiornandomi costantemente sulle innovazioni giurisprudenziali relative ad istituti particolari quali l'affido esclusivo e l'affido super-esclusivo, nonché l'autorizzazione giudiziale all'espatrio del minore, mediante acquisizione della carta d'identità, in presenza di opposizione dell'altro genitore. Mi occupo regolarmente anche di procedimenti aventi ad oggetto la responsabilità genitoriale (artt. 330 e 333 c.c.).


Eredità e successioni

Ho conseguito il diploma post lauream di specializzazione in ambito notarile, presso l'Università "Magna Graecia" di Catanzaro, a seguito del corso della durata biennale e dell'esame finale, superato con successo. Parallelamente ho frequentato uno studio notarile della città di Cosenza per uno stage obbligatorio, facente parte del percorso di preparazione ai fini dell'ottenimento del titolo di specializzazione. Frattanto ho sempre coltivato gli studi in ambito notarile al fine di poter affrontare il concorso. Com'è noto tali studi prevedono, tra l'altro, un'elevatissima specializzazione nel diritto delle successioni e donazioni.


Altre categorie:

Separazione, Affidamento, Tutela dei minori, Fallimento e proc. concorsuali, Diritto assicurativo, Diritto del lavoro, Diritto penale, Incidenti stradali, Stalking e molestie, Risarcimento danni, Divorzio, Matrimonio, Sicurezza ed infortuni sul lavoro, Sostanze stupefacenti, Diritto condominiale, Malasanità e responsabilità medica, Mediazione, Omicidio, Multe e contravvenzioni, Incapacità giuridica, Diritto sindacale, Negoziazione assistita, Tutela del consumatore, Edilizia ed urbanistica, Previdenza, Gratuito patrocinio, Domiciliazioni.


Referenze

Pubblicazione legale

Il trust interno

Pubblicato su IUSTLAB

Nel quotidiano svolgimento dell’attività professionale forense mi sono, non di rado, imbattuto nella controversa tematica del “ diritto di cittadinanza ” nel nostro ordinamento dell’istituto del trust interno , la cui validità è stata fonte di acceso dibattito in dottrina e di pronunce giurisprudenziali contrapposte. Prima di entrare nel merito dell’oggetto del presente articolo è però d’uopo non dare per scontata la nozione di “ trust ” e svolgere quindi, per brevi cenni, alcune considerazioni generali in merito all’istituto. Il riferimento normativo nazionale è la Legge n. 364 del 1989 che introduce il “ trust ” nell’ordinamento italiano, recependolo dal diritto comunitario che all’art. 2 della Convenzione dell’Aja viene testualmente riferito ai: “ rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato”. Tanto con notazione che i beni destinati al trust restano scissi dai beni di proprietà del trustee che non può, quindi farli propri, né confonderli con il patrimonio personale. Il trustee, in altri termini, è il formale intestatario dei beni ma non anche il proprietario. Ciò non di meno egli ha il potere di amministrarli, gestirli e disporne, sempre in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme civilistiche imposte al trustee dall’ordinamento, con l’obbligo di rendere conto del proprio operato, posto che è responsabile (anche penalmente) delle sorti del compendio dei beni facenti parte del trust. Nello svolgimento della riflessione in esame è, a mio avviso, imprescindibile fare menzione della nota sentenza della Cassazione Penale n. 50672/2014 che, in tema di trust, trustee ed appropriazione indebita, non ha posto in dubbio la validità del trust interno ed anzi ha gettato le basi per una definizione più precisa dell’istituto. A tal fine rileva la S.C. che: “ devono assumere rilevanza preminente, nell’interpretazione del negozio sia il vincolo di destinazione che grava sui beni (che, determinandone la funzione economico-sociale, ne impedisce la commistione con il patrimonio del trustee ) sia l’esistenza di beneficiari del negozio fiduciario, a favore dei quali deve indirizzarsi tutta l’attività di gestione dei beni e rapporti conferiti nel trust, dovendosi attribuire all’intestazione formale del diritto di proprietà al trustee la valenza di una proprietà temporale, sostanziata dal possesso del bene, sicuramente diversa da quella delineata nell’art. 832 cod. civ. e svincolata dal potere di disporre dei beni in misura piena ed esclusiva”. Al di là delle considerazioni che precedono, improntate alla definizione generale dell’istituto del trust, lo specifico oggetto della nostra analisi è la verifica in ordine alla possibile validità o meno della speciale figura del trust interno (o c.d. domestico) nel nostro ordinamento. Per trust interno s’intende quel rapporto giuridico costituito da cittadini residenti in Italia con beni situati nel territorio nazionale, a favore di beneficiari italiani, disciplinato da una legge straniera. In altri termini è definito interno il trust che non presenta elementi di contatto con ordinamenti giuridici stranieri, eccezion fatta per la legge regolatrice che rappresenta l’unico elemento “esterno” rispetto all’ordinamento italiano. I problemi interpretativi intorno all’ammissibilità di un siffatto istituto “ibrido” – con elementi oggettivi e soggettivi italiani e legge regolatrice internazionale - nascono dal conflitto esistente fra la concezione anglosassone di trust e ed i principi dell’ordinamento italiano in tema di rapporti di proprietà, tutela dei terzi e successioni. Prescindendo però da questa sede i pur necessari approfondimenti dottrinari in tema di trust e del rapporto con l’art. 2740 c.c. , conviene, adesso, incentrare l’attenzione su un’altra interessante pronuncia della giurisprudenza di merito che va ben oltre la mera definizione del trust data dalla cennata sentenza della Cassazione Penale, proclamandone, addirittura, in modo espresso la validità. Si fa riferimento al decreto del Tribunale di Milano, 23 febbraio 2005 che, in tema di omologazione degli accordi di separazione personale tra coniugi, aventi ad oggetto il trasferimento di beni immobili, sancisce quanto segue: “ può essere omologato un accordo di separazione consensuale prevedente l’istituzione, da parte di uno tra i coniugi, di un trust interno autodichiarato nel quale il disponente, allo scopo di soddisfare le esigenze abitative della figlia minorenne, conferisce un bene immobile di sua proprietà ”. La pronuncia è parsa, fra altre, quella che più nettamente sancisce il diritto di cittadinanza del trust interno nel nostro ordinamento. Se infatti si considera la tradizionale “ prudenza ” del giudicante italiano in tema di clausole relative agli accordi di separazione consensuale, appare particolarmente “ forte ” il richiamo all’ammissibilità del trust interno come strumento di regolazione di quei peculiari rapporti. Il varrebbe a dire che se ammettessimo il trust interno nella delicata materia dell’omologazione delle clausole di separazione, a maggior ragione non vi è ambito del diritto che ne possa escludere l’utilizzo. Al di là dello specifico, quanto peculiare, caso che precede, sembra opportuno, pertanto, concludere per l’ammissibilità del trust interno nell’ordinamento italiano, non solo e non tanto in virtù dell’ormai costante indirizzo giurisprudenziale, ma, soprattutto in merito al sempre crescente numero di autori che ritengono ammissibile e – quindi – valido l’istituto in quanto l’elemento necessario di estraneità (al fine di considerarlo esterno, alias non domestico) sia costituito dalla scelta della legge straniera quale regolatrice dei rapporti. Bibliografia: P. Perlingieri, V. Rizzo, Negozio fiduciario e Trust in P. Perlingieri, Manuale di diritto Civile, Napoli 2005 M. F. Giorgianni, N. Fibbi, Quid Iuris? in Diritto Notarile, Collana diretta da L. Genghini, ottobre 2016

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Il conflitto di interessi nella donazione tra genitori e figli

Pubblicato su IUSTLAB

L'art. 320, comma 3° del Codice Civile dispone: " I genitori non possono alienare, ipotecare o dare in pegno i beni pervenuti al figlio a qualsiasi titolo, anche a causa di morte, accettare o rinunziare ad eredità o legati, accettare donazioni [...]". Si è posto, pertanto, il problema se nella donazione dei genitori a beneficio del figlio minore questi possano, previa l'autorizzazione del giudice, di cui al 3° comma dell'art. 320 c.c., intervenire in atto, sia nella qualità di donanti, sia in quella di rappresentanti del minore donatario. La rilevanza della questione è di immediata comprensibilità avuto riguardo del fatto che, ai sensi dell'art. 322 c.c. l'atto compiuto in violazione delle norme che regolano la rappresentanza e l'amministrazione dei beni del minore può essere annullato. Al fine di rispondere al quesito è necessario, anzitutto, stabilire se tra il genitore donante ed il minore donatario sussista o meno un conflitto d'interessi. La dottrina maggioritaria ha risposto negativamente, argomentando che nella donazione gli interessi del donante e del donatario coincidono ed il minore non corre alcun rischio patrimoniale ( A. Guerra , L'accettazione della donazione fatta dal padre al figlio minore; B. Biondi , Le donazioni ). Esclusa l'esistenza di un conflitto d'interessi è però discusso su chi debba intervenire in atto per accettare la donazione in rappresentanza del minore. Un filone minoritario, quanto risalente, ha sostenuto che il genitore stesso, ottenuta l'autorizzazione del giudice tutelare, può validamente accettare la donazione in nome e per conto del figlio donatario. E' però preferibile l'orientamento di quegli autori i quali sostengono che dovrebbe essere il genitore non donante a rappresentare il figlio minore in atto, posto che l'istituto del contratto con sé stesso non trova applicazione nella rappresentanza legale ( A. Galluccio , Contributo alla dottrina dei contratti con sé stesso ) in quanto il minore (incapace per definizione) non può, come richiesto dall'art. 1395 c.c. autorizzare il rappresentante o predeterminare il contenuto del contratto. Quanto precede per non dire, poi, che sarebbe illogico concedere allo stesso donante il potere di accettare la donazione, posto che trattasi di un contratto che prevede la compresenza di più contraenti. Non è però mancato l'avviso giurisprudenziale a mente del quale vi sarebbe, invece, un vero e proprio conflitto d'interessi tale da escludere la possibilità che il genitore donante possa rappresentare in atto il minore donatario. Questa lettura è stata fatta propria dalla Suprema Corte ( Cass. 19 gennaio 1981, n. 439 ), sull'assunto per cui la donazione costituisce sempre un atto potenzialmente idoneo a recare pregiudizio al patrimonio del minore, come dimostra proprio la formulazione dell'art. 320, comma 3° c.c., che prevede la necessità di un'autorizzazione affinché il genitore possa accettare una donazione in luogo del figlio minore. Inoltre il conflitto d'interessi sarebbe da rintracciare nella circostanza che il donatario, ai sensi e per gli effetti dell'art. 437 c.c., sia pure nei limiti del valore della cosa donata, è tenuto con precedenza su ogni altro obbligato, a prestare gli alimenti al donante. Pertanto, escluso che il genitore donante possa rappresentare in atto il minore donatario, al fine di identificare il soggetto legittimato ad accettare la donazione in luogo del minore non resta che chiedersi se il conflitto d'interessi si sostanzi anche nei confronti del genitore non donante. Secondo la Suprema Corte anche il genitore non donante, se coniugato con il genitore donante, si trova in una situazione di conflitto di interessi con il figlio minore donatario e, pertanto, è necessario domandare giudizialmente la nomina di un curatore speciale che intervenga in luogo del minore ( Cass. Civ. 19 gennaio 1981, n. 439 ). In questo caso si averbbe conflitto d'interessi in quanto la donazione potrebbe ledere i diritti ereditari spettanti al coniuge non donante, ex art. 540 c.c. ed eventualmente agli altri figli laddove il genitore non donante sia anche co-donatario. Secondo un avviso del tutto diverso il genitore non donante può legittimamente intervenire in atto per accettare la donazione in luogo del figlio minore donatario, mancando qualsiasi conflitto d'interessi ( A. Finocchiaro - M. Finocchiaro , Diritto di Famiglia ). E' comunque da riferire che la dottrina prevalente e parte della giurisprudenza negano l'insorgenza del conflitto d'interessi, in quanto sia l'insorgere dell'obbligazione alimentare, sia la lesione dei diritti successori del coniuge, sono situazioni eventuali ed incerte per cui il conflitto è, in realtà, solo potenziale e, quindi, irrilevante. Nel caso in cui a donare siano entrambi i genitori oppure l'unico genitore esercente la responsabilità genitoriale, si rende necessaria la nomina di un curatore speciale che intervenga in atto in rappresentanza del minore donatario. Bibliografia: L. Mambelli - J. Balottin, Glossario Notarile, Giuffrè Editore, 2013

Pubblicazione legale

Usucapione delle pertinenze e scindibilità del vincolo pertinenziale

Pubblicato su IUSTLAB

La possibilità di usucapire le pertinenza, indipendentemente dalla sorte della “ res ” principale, rappresenta solo apparentemente un problema di scarsa rilevanza nella realtà dei rapporti giuridici. In realtà la casistica dimostra che è tutt’altro che un caso di scuola, specie se si pensa a, titolo esemplificativo, al non raro caso dell’utilizzo ininterrotto ed esclusivo della soffitta, magari per decenni, da parte di chi non è proprietario dell’appartamento al quale era originariamente legata dal vincolo pertinenziale . Quella sin qui descritta è, però, la situazione di fatto, mentre, ciò che a noi interessa comprendere è se, sotto il profilo giuridico, detta situazione sia o meno suscettiva di determinare quegli speciali effetti che l’ordinamento riconosce al possesso, al ricorrere di determinate condizioni, vale a dire l’usucapione . La nostra analisi prescinderà dall’approfondire la disamina dei concetti giuridici di “pertinenza” e di “usucapione”, dandoli per scontati, salvo per alcune fondamentali precisazioni sui requisiti in presenza dei quali il possessore diviene proprietario del bene, realizzando, così, l’esigenza della garanzia della certezza dei rapporti giuridici. Le caratteristiche (da intendersi in senso tassativo) per usucapire validamente un bene sono: il possesso pacifico o non conseguito con mezzi violenti, pubblico (alias non clandestino), ininterrotto e continuo . Non è, invece, ritenuto necessario il requisito della “buona fede”, posto che anche il possesso in malafede è idoneo a fondare l’usucapione ex art. 1158 c.c. Fermo quanto precede è però da considerare che l’indagine sull’acquisto dei beni, specialmente quelli immobili, tramite usucapione, non si limita all’accertamento circa la sussistenza dei requisiti oggettivi sin qui esposti, in quanto spetta all’interprete scendere altresì nel merito dell’eventuale ricorso dell’elemento soggettivo : il c.d. “ animus possidendi ” in capo al presunto acquirente. Ovviamente non è sufficiente il mero sussistere delle condizioni sin qui esposte al fine di acquisire in via automatica e fattuale la proprietà di un bene immobile, essendo, invece, necessario rivolgersi al Giudice per l’ottenimento di una sentenza dichiarativa del diritto vantato ( n. b. la sentenza non ha carattere dichiarativo e gli effetti dell’usucapione retroagiscono). Nel corso del procedimento l’onere probatorio circa la sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi suesposti, grava sulla parte attrice , alias sul preteso proprietario, mentre il (proprietario) convenuto ha l’onere di dimostrare i vizi del possesso altrui, impeditivi dell’acquisto della proprietà ( Corte di Appello di Ancona sentenza del 02.03.2005; nello stesso senso Cass. Civ. sez. II, 16.03.2000, n. 3063 ). Svolte le considerazioni di carattere generale che precedono, è necessario ricondurre l’attenzione sul peculiare (e per nulla scontato) tema dell’ usucapione delle pertinenze . Ci si è chiesto, in altri termini, se sia o meno possibile usucapire la singola pertinenza separatamente dal bene principale cui è ab origine connessa. E’, anzitutto, pacifico che, sulla base di quanto è previsto ex art. 818 c.c. le pertinenze possono essere usucapite in uno con la cosa principale, nel senso che l’acquisto a titolo originario di un bene collegato funzionalmente ad un altro, può essere riconosciuto “automaticamente” per il noto principio della Suprema Corte secondo cui: “ gli atti ed i rapporti giuridici delle pertinenze seguono, seguono in regime giuridico della cosa principale, se non diversamente disposto ” (Cassazione Civile, sez. II, 19.03.1999, n. 2531). Ha, invece, sovente rappresentato oggetto di incertezza giuridica la situazione contraria, ossia il caso in cui la sola pertinenza sia oggetto di usucapione , separatamente dal bene principale. Autorevole dottrina (R. Mazzon) ha, ad avviso dello scrivente, esaurientemente dato risposta positiva al quesito, ammettendo l’usucapibilità autonoma e distinta delle pertinenze: “[…] in effetti, in tema di giudizio volto all’accertamento della proprietà di un bene immobile per intervenuta usucapione, la circostanza che esso sia destinato a pertinenza rispetto ad un altro bene di proprietà dell’istante non fa venire meno la necessità di procedere all’accertamento richiesto, non potendo tale destinazione essere considerata, di per sé, alla stregua di un modo di acquisto della proprietà” (R. Mazzon, Usucapione di beni mobili e immobili, Maggioli editore 2013; Cass. Civ., sez. II 13.02.2006, n. 3069). A riprova di quanto precede è appena il caso di richiamare il principio, oramai condiviso dalla dottrina prevalente, della scindibilità del vincolo pertinenziale , nel senso dell’alienabilità della pertinenza indipendentemente dal bene principale (è, ad esempio, il caso degli spazi condominiali assegnati ed adibiti a parcheggio, rispetto ai quali non si dubita che possano costituire oggetto di compravendita, a prescindere che sia o meno trasferita la proprietà dell’unità immobiliare cui sono collegati da vincolo pertinenziale). Ne deriva, a fortiori , che se la pertinenza può costituire oggetto di trasferimento della proprietà, indipendentemente dalla “ res ” principale, può ben costituire oggetto dell’usucapione.

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