Avvocato Francesco Guido a Cosenza

Francesco Guido

Avv. penalista e civilista esperto in diritto di famiglia, assicurazioni, successioni

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Pronto Soccorso: ricognizione dei requisiti minimi in campo igienico-sanitario e delle prestazioni sanitarie erogate

Scritto da: Francesco Guido - Pubblicato su IUSTLAB

Pubblicazione legale:

La vexata quaestio dell'adeguatezza dei luoghi adibiti a Pronto Soccorso o, per meglio dire ad Unità Operativa Complessa di Emergenza -Urgenza, sotto il profilo giuridico, può essere definita soltanto in termini di riduzione dei margini di indeterminatezza che la normativa tradizionalmente presenta.

Quanto precede è agevolmente comprensibile se si considera che non esiste una legislazione unitaria di settore utilmente invocabile ai fini dell'individuazione dei requisiti che ciascuna struttura deve possedere sì da risultare conforme e, come tale, sicura per l'utenza e per gli operatori sanitari.

La materia è, invece, contraddistinta da indicazioni normative frammentarie ed estremamente mutevoli e ciò proprio in ragione dell'attribuzione alle Regioni di poteri "rafforzati" in tema di organizzazione dei servizi sanitari, a seguito dell'introduzione del novellato Titolo V della Costituzione.

Prescinde da questa sede la pur rilevante opportunità di svolgere un'indagine approfondita circa l'efficacia di un simile assetto costituzionale, ragion per cui l'analisi che ci occupa è esclusivamente mirata a delineare un quadro didascalico delle più "comuni" norme di settore rappresentanti l'impalcatura più o meno diffusa nelle 20 regioni italiane.

Non desti meraviglia l'utilizzo del termine "comune" che, in verità, generalmente, mal si concilia con il comune sentire circa la necessità della "certezza del diritto" vigente sull'intero territorio nazionale.

Purtroppo, però, l'immensa questione dell'inadeguatezza del sistema sanitario di talune regioni (prima fra tutte la Calabria, oramai da anni ultima nelle classifiche stilate da più enti in ordine ai requisiti qualitativi del servizio sanitario offerto), pone in serio dubbio il sostanziale rispetto delle norme generali che, pur vigenti almeno formalmente, dovrebbero valere ad ogni latitudine dello Stato italiano, mentre sovente sono disattese.

Sorgerebbe dunque spontaneo il quesito in ordine alle ragioni per le quali l'ordinamento giuridico non reagisca con determinazione rispetto alle molteplici violazioni sia di norme generali, sia di leggi speciali poste in essere dalle Aziende Ospedaliere, talora persino palesemente, tanto da trovare ampia narrazione sulla stampa cartacea e telematica.

Anche in questo caso l'approfondimento condurrebbe lontano e, comunque, ben oltre il thema della presente trattazione.

Sia sufficiente considerare che ogni ente regionale, pur nei limiti imposti dalla Costituzione, com'è ovvio, attua pienamente il principio dell'autonomia organizzativa di Aziende Ospedaliere, Aziende Sanitarie, Centri Spoke, Centri Hub e medicina del territorio a vario titolo (ivi compresi i medici di famiglia).

Fatto sta che ciascuno di tali organi assume, a sua volta, funzioni di autogoverno, per lo meno limitatamente alla definizione degli obiettivi e delle linee guida, nonché dei controlli igienico-sanitari.

Se a tali considerazioni si aggiunge che non poche sono le aziende sanitarie ed ospedaliere soggette alle norme speciali previste per il commissariamento, mentre addirittura nel caso della Regione Calabria è in carica un commissario regionale ad acta da oltre 10 anni, ben si comprende come la pretesa di definire un quadro normativo unitario non sia difficile, bensì inutile.

Certamente appare, per altro verso, opportuno annoverare le principali linee guida in tema di organizzazione dei servizi sanitari, avuto riguardo dell'irrinunciabile necessità (soprattutto in tempo di pandemia da Covid-19) di approntare tutte le idonee condizioni igienico-sanitarie ritenute conformi agli orientamenti scientifici prevalenti, soprattutto a beneficio degli ambulatori e dei locali complementari ed annessi ove hanno sede i Pronto Soccorso.

L'itinerario della ricognizione normativa in argomento non può che partire dal principale assetto legislativo in materia di individuazione dei Livelli essenziali di assistenza sanitaria ( i cosiddetti LEA): il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 29 novembre 2001, e successive modificazioni, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale in data 08 febbraio 2002 al n. 33.

Nell'allegato 1 del Decreto, alla lettera G, è prescritto che sull'intero territorio nazionale debbano essere garantite: a) attività sanitaria e sociosanitaria rivolta alle persone con problemi psichiatrici e alle loro famiglie; b) attività riabilitativa sanitaria e sociosanitaria rivolta alle persone con disabilità fisica, psichica e sensoriale; c) attività sanitaria e sociosanitaria rivolta alle persone dipendenti da sostanze stupefacenti o psicotrope o da alcool; d) attività sanitaria e sociosanitaria rivolta a pazienti nella fase terminale; e) attività sanitaria e sociosanitaria rivolta alle persone con infezione da HIV.

Posto che più d'una di tali attività dovrebbero svolgersi regolarmente anche presso gli ambulatori dei Pronto Soccorso, è agevole rilevare come, ad esempio in tema di trattamento delle patologie psichiatriche, non di rado tali reparti siano completamente sprovvisti degli idonei mezzi per la gestione in sicurezza di simili pazienti.

A favore di tale interpretazione - e cioè della necessità che all'interno del Pronto Soccorso dovrebbero normalmente realizzarsi, quantomeno, i primi interventi di messa in sicurezza dei pazienti affetti da patologie psichiatriche - milita un altro argomento.

L'allegato 2C del medesimo decreto, in tema di prestazioni incluse nei LEA che presentano un profilo organizzativo potenzialmente inappropriato, include due sole prestazioni che non possono essere erogate in regime di degenza ordinaria, ossia: nevrosi depressiva (eccetto urgenze) e nevrosi eccetto nevrosi depressiva (eccetto urgenze).

Ne deriva che negli altri casi, al cospetto di patologie psichiatriche, per la realizzazione dei livelli essenziali deve essere garantito un efficace intervento di stabilizzazione di tali degenti. Fermo restando che persino nei due casi summenzionati è obbligatorio un adeguato intervento in condizioni di urgenza. 

Particolarmente interessante appare, poi, il contenuto del Decreto Ministeriale 2 aprile 2015 n. 70, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 04.07.2017 al n. 127, in tema di Regolamento recante la "definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all'assistenza ospedaliera".

L'art. 1 della norma in argomento, in tema di standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all'assistenza ospedaliera, al comma 2 prevede che le regioni debbano adottare un provvedimento generale di programmazione in ordine alla dotazione dei posti letto ospedalieri in base alla popolazione residente nei diversi territori, avendo quale limite, certamente non insuperabile né perentorio, i 3,7 posti letto per mille abitanti.

L'allegato 1 del decreto di cui trattasi, all'art. 1, comma 1.2  propone una visione integrata dell'assistenza sanitaria in virtù della quale: "l'ospedale deve assolvere ad una funzione specifica di gestione delle problematiche assistenziali dei soggetti affetti da una patologia (medica o chirurgica) ad insorgenza acuta e con rilevante compromissione funzionale, ovvero di gestione di attività programmabili che richiedono un contesto tecnologicamente ed organizzativamente articolato e complesso, capace di affrontare, in maniera adeguata, peculiari esigenze sanitarie sia acute che post- acute e riabilitative". 

A prescindere dalla mera dichiarazione d'intenti della norma in esame, pur perseguente il lodevole scopo di unificare nazionalmente i livelli essenziali di assistenza, è tangibilmente verificato come in talune realtà regionali i Pronto Soccorso riescano - e non senza inveterate criticità - a gestire a malapena l'ordinaria amministrazione.  

Sempre a mente della medesima norma, in ogni caso, l'ospedale dovrebbe assicurare la gestione del percorso diagnostico terapeutico (PDT) del problema clinico di cui si fa carico, sia all'interno del presidio che all'interno della rete ospedaliera, affinché possa essere assicurata, anche in fase successiva alla prima accettazione, l'allocazione dei pazienti presso i presidi che dispongano di un livello organizzativo coerente con la complessità assistenziale del caso da trattare.

Di fondamentale rilevanza appare, inoltre, richiamare la seguente parte della norma che disciplina il ricovero dei pazienti, secondo il principio della garanzia del poso letto, se ritenuto necessario dai medici del Pronto Soccorso: "la gestione dei posti letto deve avvenire pertanto con la massima flessibilità, al fine di assicurare la maggior dinamicità organizzativa rispetto alla domanda appropriata di ricovero, con specifica rilevanza per le necessità provenienti dal pronto soccorso aventi le caratteristiche dell'urgenza e dell'emergenza. E’ raccomandata anche l'informatizzazione delle disponibilità dei posti letto per aree geografiche".

In altri termini la disposizione del ricovero nei reparti di degenza, a beneficio dei pazienti per i quali sussistano idonee indicazioni mediche, qualora venisse rispettata, non solo garantirebbe l'adempimento degli obblighi imposti dalla normativa in esame, ma determinerebbe, senz'altro, il realizzarsi di migliori condizioni igienico-sanitarie dei Pronto Soccorso, i quali non si vedrebbero più sovraffollati e contraddistinti da esecrabili condizioni di promiscuità.

L'art. 6 dell'allegato 1 del Decreto al comma 3° dispone che ogni struttura, tenendo anche conto del suo interfacciamento con la componente impiantistica e con le attrezzature, ha l'obbligo del rispetto, assicurato con controlli periodici, dei contenuti degli atti normativi e delle linee guida nazionali e regionali vigenti in materia di qualità e sicurezza delle strutture con riferimento a:  protezione antisismica; - antincendio; - radioprotezione - sicurezza per i pazienti, degli operatori e soggetti ad essi equiparati; - rispetto della privacy sia per gli aspetti amministrativi che sanitari; - monitoraggio periodico dello stato di efficienza e sicurezza delle attrezzature biomedicali; - graduale sostenibilità energetico-ambientale in termini di riduzione dei consumi energetici; - smaltimento dei rifiuti; - controlli periodici per gli ambienti che ospitano aree di emergenza, sale operatorie, rianimazione e terapie intensive e medicina nucleare; - monitoraggio periodico dello stato di efficienza e sicurezza degli impianti tecnici e delle attrezzature biomedicali; - controllo periodico della rispondenza delle opere edilizie alle normative vigenti.

Norma che se fosse realizzata garantirebbe la sicurezza degli ambulatori ove si erogano le prestazioni sanitarie, sia agli operatori, sia ai pazienti.

Ci si chiede in quale modo possa, invece, dirsi realizzato il sacrosanto diritto alla "privacy" in contesti ambientali ove, sovente, le prestazioni di carattere sociosanitario, ivi incluse le operazioni di igiene dei pazienti non autosufficienti, avvengono al cospetto di tutti gli stazionanti, siano essi degenti o congiunti dei medesimi, nel corso delle ben note ore di attesa che ciascuno sperimenta in Pronto Soccorso.

Infine vale la pena soffermare la riflessione sull'art. 9.2.1 Ospedale sede di Pronto Soccorso che prevede il seguente testuale obbligo: "Deve essere dotato di letti di Osservazione Breve Intensiva (O.B.I.) proporzionali al bacino di utenza e alla media degli accessi".

In altri termini, ai fini del rispetto della norma si renderebbe essenziale la presenza di un O.B.I. a servizio di ciascun Pronto Soccorso avente i requisiti dettati dal Decreto, a maggior ragione nel caso in cui dovesse trattarsi di Ospedale D.E.A. di II Livello (Hub).

Raccogliendo le fila di quanto sin qui argomentato, senza alcuna presunzione di completezza espositiva, si è tentato di offrire un quadro comparativo d'insieme delle carenze più o meno riscontrabili in determinati Pronto Soccorso, avuto riguardo, invece, delle prescrizione di legge per la garanzia dei livelli essenziali di prestazione.


Avv. Francesco Guido - Avv. penalista e civilista esperto in diritto di famiglia, assicurazioni, successioni

Ho esperienza settoriale in materia di diritto penale per colpa medica e reati contro la persona mentre in diritto civile mi occupo di famiglia e minori, volontaria giurisdizione, assicurazioni, successioni e donazioni. Tratto ampia casistica in tema di modifica accordi di separazione e divorzio, nonché separazione tra coniugi e regime di affidamento dei minori. Sono legale di fiducia di un sindacato autonomo in materia di professioni sanitarie. Dopo la laurea presso l'Università di Roma Tor Vergata, ho conseguito la specializzazione ad indirizzo notarile presso l'Università Magna Graecia di Catanzaro.




Francesco Guido

Esperienza


Diritto civile

Sono autore di una tesi di laurea monografica in Diritto Civile dal titolo "Dichiarazioni inesatte e reticenti nel contratto di assicurazione", relatore il Chiarissimo Prof. Paolo Papanti Pelletier - Ordinario di diritto civile presso l'Ateneo di Roma "Tor Vergata" ove ho conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza nell'anno 2013. Ho conseguito il diploma di specializzazione ad indirizzo notarile presso la S.S.P.P.L. dell'Università "Magna Graecia" di Catanzaro, oltre ad avere frequentato uno studio notarile in Cosenza per uno stage con rilascio di attestato di frequenza. Studio da anni per il concorso notarile.


Diritto di famiglia

Mi occupo quotidianamente di tutti gli aspetti del diritto di famiglia e di volontaria giurisdizione, conferendo peculiare centralità alle separazioni, ai divorzi ed ai c.d. "diritti contesi" dei minori, aggiornandomi costantemente sulle innovazioni giurisprudenziali relative ad istituti particolari quali l'affido esclusivo e l'affido super-esclusivo, nonché l'autorizzazione giudiziale all'espatrio del minore, mediante acquisizione della carta d'identità, in presenza di opposizione dell'altro genitore. Mi occupo regolarmente anche di procedimenti aventi ad oggetto la responsabilità genitoriale (artt. 330 e 333 c.c.).


Eredità e successioni

Ho conseguito il diploma post lauream di specializzazione in ambito notarile, presso l'Università "Magna Graecia" di Catanzaro, a seguito del corso della durata biennale e dell'esame finale, superato con successo. Parallelamente ho frequentato uno studio notarile della città di Cosenza per uno stage obbligatorio, facente parte del percorso di preparazione ai fini dell'ottenimento del titolo di specializzazione. Frattanto ho sempre coltivato gli studi in ambito notarile al fine di poter affrontare il concorso. Com'è noto tali studi prevedono, tra l'altro, un'elevatissima specializzazione nel diritto delle successioni e donazioni.


Altre categorie:

Separazione, Affidamento, Tutela dei minori, Fallimento e proc. concorsuali, Diritto assicurativo, Diritto del lavoro, Diritto penale, Incidenti stradali, Stalking e molestie, Risarcimento danni, Divorzio, Matrimonio, Sicurezza ed infortuni sul lavoro, Sostanze stupefacenti, Diritto condominiale, Malasanità e responsabilità medica, Mediazione, Omicidio, Multe e contravvenzioni, Incapacità giuridica, Diritto sindacale, Negoziazione assistita, Tutela del consumatore, Edilizia ed urbanistica, Previdenza, Gratuito patrocinio, Domiciliazioni.


Referenze

Pubblicazione legale

Il trust interno

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Nel quotidiano svolgimento dell’attività professionale forense mi sono, non di rado, imbattuto nella controversa tematica del “ diritto di cittadinanza ” nel nostro ordinamento dell’istituto del trust interno , la cui validità è stata fonte di acceso dibattito in dottrina e di pronunce giurisprudenziali contrapposte. Prima di entrare nel merito dell’oggetto del presente articolo è però d’uopo non dare per scontata la nozione di “ trust ” e svolgere quindi, per brevi cenni, alcune considerazioni generali in merito all’istituto. Il riferimento normativo nazionale è la Legge n. 364 del 1989 che introduce il “ trust ” nell’ordinamento italiano, recependolo dal diritto comunitario che all’art. 2 della Convenzione dell’Aja viene testualmente riferito ai: “ rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato”. Tanto con notazione che i beni destinati al trust restano scissi dai beni di proprietà del trustee che non può, quindi farli propri, né confonderli con il patrimonio personale. Il trustee, in altri termini, è il formale intestatario dei beni ma non anche il proprietario. Ciò non di meno egli ha il potere di amministrarli, gestirli e disporne, sempre in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme civilistiche imposte al trustee dall’ordinamento, con l’obbligo di rendere conto del proprio operato, posto che è responsabile (anche penalmente) delle sorti del compendio dei beni facenti parte del trust. Nello svolgimento della riflessione in esame è, a mio avviso, imprescindibile fare menzione della nota sentenza della Cassazione Penale n. 50672/2014 che, in tema di trust, trustee ed appropriazione indebita, non ha posto in dubbio la validità del trust interno ed anzi ha gettato le basi per una definizione più precisa dell’istituto. A tal fine rileva la S.C. che: “ devono assumere rilevanza preminente, nell’interpretazione del negozio sia il vincolo di destinazione che grava sui beni (che, determinandone la funzione economico-sociale, ne impedisce la commistione con il patrimonio del trustee ) sia l’esistenza di beneficiari del negozio fiduciario, a favore dei quali deve indirizzarsi tutta l’attività di gestione dei beni e rapporti conferiti nel trust, dovendosi attribuire all’intestazione formale del diritto di proprietà al trustee la valenza di una proprietà temporale, sostanziata dal possesso del bene, sicuramente diversa da quella delineata nell’art. 832 cod. civ. e svincolata dal potere di disporre dei beni in misura piena ed esclusiva”. Al di là delle considerazioni che precedono, improntate alla definizione generale dell’istituto del trust, lo specifico oggetto della nostra analisi è la verifica in ordine alla possibile validità o meno della speciale figura del trust interno (o c.d. domestico) nel nostro ordinamento. Per trust interno s’intende quel rapporto giuridico costituito da cittadini residenti in Italia con beni situati nel territorio nazionale, a favore di beneficiari italiani, disciplinato da una legge straniera. In altri termini è definito interno il trust che non presenta elementi di contatto con ordinamenti giuridici stranieri, eccezion fatta per la legge regolatrice che rappresenta l’unico elemento “esterno” rispetto all’ordinamento italiano. I problemi interpretativi intorno all’ammissibilità di un siffatto istituto “ibrido” – con elementi oggettivi e soggettivi italiani e legge regolatrice internazionale - nascono dal conflitto esistente fra la concezione anglosassone di trust e ed i principi dell’ordinamento italiano in tema di rapporti di proprietà, tutela dei terzi e successioni. Prescindendo però da questa sede i pur necessari approfondimenti dottrinari in tema di trust e del rapporto con l’art. 2740 c.c. , conviene, adesso, incentrare l’attenzione su un’altra interessante pronuncia della giurisprudenza di merito che va ben oltre la mera definizione del trust data dalla cennata sentenza della Cassazione Penale, proclamandone, addirittura, in modo espresso la validità. Si fa riferimento al decreto del Tribunale di Milano, 23 febbraio 2005 che, in tema di omologazione degli accordi di separazione personale tra coniugi, aventi ad oggetto il trasferimento di beni immobili, sancisce quanto segue: “ può essere omologato un accordo di separazione consensuale prevedente l’istituzione, da parte di uno tra i coniugi, di un trust interno autodichiarato nel quale il disponente, allo scopo di soddisfare le esigenze abitative della figlia minorenne, conferisce un bene immobile di sua proprietà ”. La pronuncia è parsa, fra altre, quella che più nettamente sancisce il diritto di cittadinanza del trust interno nel nostro ordinamento. Se infatti si considera la tradizionale “ prudenza ” del giudicante italiano in tema di clausole relative agli accordi di separazione consensuale, appare particolarmente “ forte ” il richiamo all’ammissibilità del trust interno come strumento di regolazione di quei peculiari rapporti. Il varrebbe a dire che se ammettessimo il trust interno nella delicata materia dell’omologazione delle clausole di separazione, a maggior ragione non vi è ambito del diritto che ne possa escludere l’utilizzo. Al di là dello specifico, quanto peculiare, caso che precede, sembra opportuno, pertanto, concludere per l’ammissibilità del trust interno nell’ordinamento italiano, non solo e non tanto in virtù dell’ormai costante indirizzo giurisprudenziale, ma, soprattutto in merito al sempre crescente numero di autori che ritengono ammissibile e – quindi – valido l’istituto in quanto l’elemento necessario di estraneità (al fine di considerarlo esterno, alias non domestico) sia costituito dalla scelta della legge straniera quale regolatrice dei rapporti. Bibliografia: P. Perlingieri, V. Rizzo, Negozio fiduciario e Trust in P. Perlingieri, Manuale di diritto Civile, Napoli 2005 M. F. Giorgianni, N. Fibbi, Quid Iuris? in Diritto Notarile, Collana diretta da L. Genghini, ottobre 2016

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Il conflitto di interessi nella donazione tra genitori e figli

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L'art. 320, comma 3° del Codice Civile dispone: " I genitori non possono alienare, ipotecare o dare in pegno i beni pervenuti al figlio a qualsiasi titolo, anche a causa di morte, accettare o rinunziare ad eredità o legati, accettare donazioni [...]". Si è posto, pertanto, il problema se nella donazione dei genitori a beneficio del figlio minore questi possano, previa l'autorizzazione del giudice, di cui al 3° comma dell'art. 320 c.c., intervenire in atto, sia nella qualità di donanti, sia in quella di rappresentanti del minore donatario. La rilevanza della questione è di immediata comprensibilità avuto riguardo del fatto che, ai sensi dell'art. 322 c.c. l'atto compiuto in violazione delle norme che regolano la rappresentanza e l'amministrazione dei beni del minore può essere annullato. Al fine di rispondere al quesito è necessario, anzitutto, stabilire se tra il genitore donante ed il minore donatario sussista o meno un conflitto d'interessi. La dottrina maggioritaria ha risposto negativamente, argomentando che nella donazione gli interessi del donante e del donatario coincidono ed il minore non corre alcun rischio patrimoniale ( A. Guerra , L'accettazione della donazione fatta dal padre al figlio minore; B. Biondi , Le donazioni ). Esclusa l'esistenza di un conflitto d'interessi è però discusso su chi debba intervenire in atto per accettare la donazione in rappresentanza del minore. Un filone minoritario, quanto risalente, ha sostenuto che il genitore stesso, ottenuta l'autorizzazione del giudice tutelare, può validamente accettare la donazione in nome e per conto del figlio donatario. E' però preferibile l'orientamento di quegli autori i quali sostengono che dovrebbe essere il genitore non donante a rappresentare il figlio minore in atto, posto che l'istituto del contratto con sé stesso non trova applicazione nella rappresentanza legale ( A. Galluccio , Contributo alla dottrina dei contratti con sé stesso ) in quanto il minore (incapace per definizione) non può, come richiesto dall'art. 1395 c.c. autorizzare il rappresentante o predeterminare il contenuto del contratto. Quanto precede per non dire, poi, che sarebbe illogico concedere allo stesso donante il potere di accettare la donazione, posto che trattasi di un contratto che prevede la compresenza di più contraenti. Non è però mancato l'avviso giurisprudenziale a mente del quale vi sarebbe, invece, un vero e proprio conflitto d'interessi tale da escludere la possibilità che il genitore donante possa rappresentare in atto il minore donatario. Questa lettura è stata fatta propria dalla Suprema Corte ( Cass. 19 gennaio 1981, n. 439 ), sull'assunto per cui la donazione costituisce sempre un atto potenzialmente idoneo a recare pregiudizio al patrimonio del minore, come dimostra proprio la formulazione dell'art. 320, comma 3° c.c., che prevede la necessità di un'autorizzazione affinché il genitore possa accettare una donazione in luogo del figlio minore. Inoltre il conflitto d'interessi sarebbe da rintracciare nella circostanza che il donatario, ai sensi e per gli effetti dell'art. 437 c.c., sia pure nei limiti del valore della cosa donata, è tenuto con precedenza su ogni altro obbligato, a prestare gli alimenti al donante. Pertanto, escluso che il genitore donante possa rappresentare in atto il minore donatario, al fine di identificare il soggetto legittimato ad accettare la donazione in luogo del minore non resta che chiedersi se il conflitto d'interessi si sostanzi anche nei confronti del genitore non donante. Secondo la Suprema Corte anche il genitore non donante, se coniugato con il genitore donante, si trova in una situazione di conflitto di interessi con il figlio minore donatario e, pertanto, è necessario domandare giudizialmente la nomina di un curatore speciale che intervenga in luogo del minore ( Cass. Civ. 19 gennaio 1981, n. 439 ). In questo caso si averbbe conflitto d'interessi in quanto la donazione potrebbe ledere i diritti ereditari spettanti al coniuge non donante, ex art. 540 c.c. ed eventualmente agli altri figli laddove il genitore non donante sia anche co-donatario. Secondo un avviso del tutto diverso il genitore non donante può legittimamente intervenire in atto per accettare la donazione in luogo del figlio minore donatario, mancando qualsiasi conflitto d'interessi ( A. Finocchiaro - M. Finocchiaro , Diritto di Famiglia ). E' comunque da riferire che la dottrina prevalente e parte della giurisprudenza negano l'insorgenza del conflitto d'interessi, in quanto sia l'insorgere dell'obbligazione alimentare, sia la lesione dei diritti successori del coniuge, sono situazioni eventuali ed incerte per cui il conflitto è, in realtà, solo potenziale e, quindi, irrilevante. Nel caso in cui a donare siano entrambi i genitori oppure l'unico genitore esercente la responsabilità genitoriale, si rende necessaria la nomina di un curatore speciale che intervenga in atto in rappresentanza del minore donatario. Bibliografia: L. Mambelli - J. Balottin, Glossario Notarile, Giuffrè Editore, 2013

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Usucapione delle pertinenze e scindibilità del vincolo pertinenziale

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La possibilità di usucapire le pertinenza, indipendentemente dalla sorte della “ res ” principale, rappresenta solo apparentemente un problema di scarsa rilevanza nella realtà dei rapporti giuridici. In realtà la casistica dimostra che è tutt’altro che un caso di scuola, specie se si pensa a, titolo esemplificativo, al non raro caso dell’utilizzo ininterrotto ed esclusivo della soffitta, magari per decenni, da parte di chi non è proprietario dell’appartamento al quale era originariamente legata dal vincolo pertinenziale . Quella sin qui descritta è, però, la situazione di fatto, mentre, ciò che a noi interessa comprendere è se, sotto il profilo giuridico, detta situazione sia o meno suscettiva di determinare quegli speciali effetti che l’ordinamento riconosce al possesso, al ricorrere di determinate condizioni, vale a dire l’usucapione . La nostra analisi prescinderà dall’approfondire la disamina dei concetti giuridici di “pertinenza” e di “usucapione”, dandoli per scontati, salvo per alcune fondamentali precisazioni sui requisiti in presenza dei quali il possessore diviene proprietario del bene, realizzando, così, l’esigenza della garanzia della certezza dei rapporti giuridici. Le caratteristiche (da intendersi in senso tassativo) per usucapire validamente un bene sono: il possesso pacifico o non conseguito con mezzi violenti, pubblico (alias non clandestino), ininterrotto e continuo . Non è, invece, ritenuto necessario il requisito della “buona fede”, posto che anche il possesso in malafede è idoneo a fondare l’usucapione ex art. 1158 c.c. Fermo quanto precede è però da considerare che l’indagine sull’acquisto dei beni, specialmente quelli immobili, tramite usucapione, non si limita all’accertamento circa la sussistenza dei requisiti oggettivi sin qui esposti, in quanto spetta all’interprete scendere altresì nel merito dell’eventuale ricorso dell’elemento soggettivo : il c.d. “ animus possidendi ” in capo al presunto acquirente. Ovviamente non è sufficiente il mero sussistere delle condizioni sin qui esposte al fine di acquisire in via automatica e fattuale la proprietà di un bene immobile, essendo, invece, necessario rivolgersi al Giudice per l’ottenimento di una sentenza dichiarativa del diritto vantato ( n. b. la sentenza non ha carattere dichiarativo e gli effetti dell’usucapione retroagiscono). Nel corso del procedimento l’onere probatorio circa la sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi suesposti, grava sulla parte attrice , alias sul preteso proprietario, mentre il (proprietario) convenuto ha l’onere di dimostrare i vizi del possesso altrui, impeditivi dell’acquisto della proprietà ( Corte di Appello di Ancona sentenza del 02.03.2005; nello stesso senso Cass. Civ. sez. II, 16.03.2000, n. 3063 ). Svolte le considerazioni di carattere generale che precedono, è necessario ricondurre l’attenzione sul peculiare (e per nulla scontato) tema dell’ usucapione delle pertinenze . Ci si è chiesto, in altri termini, se sia o meno possibile usucapire la singola pertinenza separatamente dal bene principale cui è ab origine connessa. E’, anzitutto, pacifico che, sulla base di quanto è previsto ex art. 818 c.c. le pertinenze possono essere usucapite in uno con la cosa principale, nel senso che l’acquisto a titolo originario di un bene collegato funzionalmente ad un altro, può essere riconosciuto “automaticamente” per il noto principio della Suprema Corte secondo cui: “ gli atti ed i rapporti giuridici delle pertinenze seguono, seguono in regime giuridico della cosa principale, se non diversamente disposto ” (Cassazione Civile, sez. II, 19.03.1999, n. 2531). Ha, invece, sovente rappresentato oggetto di incertezza giuridica la situazione contraria, ossia il caso in cui la sola pertinenza sia oggetto di usucapione , separatamente dal bene principale. Autorevole dottrina (R. Mazzon) ha, ad avviso dello scrivente, esaurientemente dato risposta positiva al quesito, ammettendo l’usucapibilità autonoma e distinta delle pertinenze: “[…] in effetti, in tema di giudizio volto all’accertamento della proprietà di un bene immobile per intervenuta usucapione, la circostanza che esso sia destinato a pertinenza rispetto ad un altro bene di proprietà dell’istante non fa venire meno la necessità di procedere all’accertamento richiesto, non potendo tale destinazione essere considerata, di per sé, alla stregua di un modo di acquisto della proprietà” (R. Mazzon, Usucapione di beni mobili e immobili, Maggioli editore 2013; Cass. Civ., sez. II 13.02.2006, n. 3069). A riprova di quanto precede è appena il caso di richiamare il principio, oramai condiviso dalla dottrina prevalente, della scindibilità del vincolo pertinenziale , nel senso dell’alienabilità della pertinenza indipendentemente dal bene principale (è, ad esempio, il caso degli spazi condominiali assegnati ed adibiti a parcheggio, rispetto ai quali non si dubita che possano costituire oggetto di compravendita, a prescindere che sia o meno trasferita la proprietà dell’unità immobiliare cui sono collegati da vincolo pertinenziale). Ne deriva, a fortiori , che se la pertinenza può costituire oggetto di trasferimento della proprietà, indipendentemente dalla “ res ” principale, può ben costituire oggetto dell’usucapione.

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