Avvocato Francesco Guido a Cosenza

Francesco Guido

Avv. penalista e civilista esperto in diritto di famiglia, assicurazioni, successioni

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La violazione del dovere di fedeltà ai fini dell'addebito della separazione

Scritto da: Francesco Guido - Pubblicato su IUSTLAB

Pubblicazione legale:

Il secondo comma dell'art. 143 c.c. elenca, tra gli altri doveri coniugali, anche quello di fedeltà, in linea generale da intendersi come la reciproca astensione dei coniugi da relazioni sentimentali con altre persone.

Parte della dottrina (Buonadonna, De Filippis, Iosca, Merola, Lupo in "La responsabilità nell'addebito della separzione") ha rilevato come il fondamento di siffatto dovere sia finalizzato ad ottenere due effetti:

a) tutelare il valore dell'unità familiare, inteso come comunione materiale tra i coniugi improntata all'esclusività del vincolo;

b) garantire il "clima di fiducia" tra i coniugi, indispensabile per il buon funzionamento del matrimonio, avuto anche riguardo della necessità che non sorgano incertezze in ordine alla filiazione.

Tuttavia tale concezione, ancorché fondata probabilmente sul "comune sentire" della maggior parte dei non addetti ai lavori, è, a parere dello scrivente, eccessivamente ancorata a ricostruzioni oramai superate e, come tali, da considerare inadeguate a descrivere in modo esaustivo l'odierno quadro sociale ed il connesso mutamento dei costumi.

D'altronde il diritto, soprattutto in materia di famiglia, non può che rimodulare costantemente i propri fondamenti, adeguandosi alle evoluzioni sociali ed alle rinnovate esigenze di concepire la famiglia alla luce di nuovi valori e secondo prospettive, talvolta, persino antitetiche rispetto al passato.

Sempre in tema definitorio della nozione di "fedeltà" - tralasciando le oscillazioni della giurisprudenza che, nelle prime sentenze successive alla riforma del diritto di famiglia del 1975 conferiva al dovere in argomento un contenuto di carattere essenzialmente sessuale, di modo che la violazione dovesse restrittivamente individuarsi nell'adulterio, mentre, in tempi più recenti ne ha esteso il concetto riconducendolo anche al "tradimento" meramente affettivo - è da considerare che molti autori hanno, a modesto parere dello scrivente, errato nell'attribuire alla "fedeltà" un contenuto eccessivamente condizionato da fattori etici, se non quando religiosi.

Appaiono, così, del tutto fuorvianti le affermazioni secondo cui l'obbligo di fedeltà è l'impegno del coniuge a non tradire la fiducia che l'altro ha riposto in lui nello sceglierlo come "unico compagno della sua vita".

Altri ha osservato che il dovere di fedeltà va concepito in relazione diretta con il fine di realizzare e consolidare l'unione tra i coniugi.

Non è poi mancato un filone di pensiero che ha ricondotto il dovere di fedeltà alla nozione di "lealtà" nel senso dell'estensione dei contenuti della stessa oltre la mera fedeltà sessuale e fino alla c.d. "fedeltà affettiva".

Un'isolata teoria è persino giunta a sostenere che la fedeltà va intesa in senso "elevato" e consiste nel riservare al coniuge il posto più importante nella propria vita.

Com'è evidente si tratta di mere asserzioni di principio, anzi di valore, che poggiano esclusivamente su presupposti di carattere ideologico che restano, ai giorni nostri, completamente avulsi dal tessuto sociale e dalle concrete modalità di estrinsecazione della vita familiare ed, ancor prima, coniugale.

Alla luce di quanto precede, appare, pertanto, più confacente all'odierna realtà giuridico-sociale ritenere che il contenuto della fedeltà, anche ai fini dell'addebitabilità della separazione personale tra i coniugi, debba essere individuato nella volontà (o meno) dei contraenti il matrimonio di proseguire nell'unione coniugale che ben può sussistere anche in caso di palese inosservanza dell'esclusività sessuale.

In altri termini il problema che l'interprete odierno dovrebbe porsi è il seguente: se sia o meno sufficiente, ai fini della declaratoria di addebito della separazione, invocare l'episodica quanto eventuale occorrenza di una relazione extraconiugale da parte dell'altro coniuge.

A siffatta ricostruzione si potrebbe agevolmente obiettare che l'aspetto sessuale resta, per lo meno nella communis opinio, il simbolo insostituibile di lealtà e fiducia nel rapporto coniugale.

Tuttavia tale prevedibile obiezione non terrebbe in considerazione alcuna due peculiari vicende che si ritengono, invece, meritevoli di tutela:

a) il non infrequente fenomeno del tacito o espresso consenso del coniuge alla possibilità che l'altro possa intrattenere relazioni di carattere sessuale con altri soggetti, di modo che, ciascuno dei coniugi goda della medesima "libertà";

b) la possibilità che, nonostante l'intrattenimento di relazioni con soggetti estranei al matrimonio da parte di uno o di entrambi i coniugi, si mantenga l'unione familiare, a maggior ragione in presenza di figli minori e, comunque, di condizioni di serenità tali da garantire la pacifica convivenza di tutti i conviventi.

Riconducendo, pertanto, l'analisi ad un criterio di tipo meramente giuridico e possibilmente impermeabile a qualsiasi pulsione di carattere confessionale, non è dato comprendere in virtù di quale logica si dovrebbe interpretare il senso estensivo il secondo comma dell'art. 143 c.c. nella parte in cui prescrive il dovere di fedeltà. 

In altri termini il legislatore ha introdotto nell'ordinamento il generale dovere di fedeltà senza, tuttavia, che sia dato reperire alcuna nozione normativamente disciplinata e, come tale, specifica del termine "fedeltà".

Tanto anche se la giurisprudenza, persino in tempi recenti, ha mostrato un'incomprensibile tendenza ad interpretare in maniera via via sempre più estensiva il concetto di "fedeltà", finendo per ricomprendervi qualsiasi forma di "attenzione" affettiva a soggetti estranei al matrimonio che possa, anche in via teorica, minare il rapporto di fiducia tra i coniugi.

Pare allo scrivente che siffatta concezione finisca, irragionevolmente, per sovrapporre ed anzi far coincidere il concetto di "fedeltà" con quello di "fiducia", addirittura ampliandone la portata sino a conseguenze estreme e, comunque, anacronistiche rispetto all'odierno dispiegarsi delle relazioni private e sociali.

D'altronde la norma in esame non fa alcun riferimento a condotte di tipo sessuale, né si riferisce all'adulterio, ma menziona esclusivamente la "fedeltà", peraltro, in passato sanzionata anche sotto il profilo penale dall'ormai abrogato art. 559 c.p.

Alla luce delle considerazioni sin qui svolte pare di poter concludere de plano che il dovere di fedeltà debba, primariamente, essere inteso quale fedeltà rispetto ai restanti doveri di coabitazione, di assistenza morale e materiale all'altro coniuge, nonché di collaborazione e, solo in via residuale, quale stensione dall'intrattenere relazioni sessuali o anche spirituali con altri soggetti.

In ultimo è il caso di rilevare che, ai fini dell'addebito nella separazione, la violazione del dovere di fedeltà non è, di per sé, sufficiente a determinarne la declaratoria, in quanto è necessario dimostrare che essa sia stata causa della fine dell'unione tra i coniugi.

Tale onere probatorio spetta, ovviamente, a chi richiede l'attribuzione dell'addebito all'altro coniuge, dovendo dimostrare la sussistenza del nesso eziologico tra l'infedeltà e la rottura dell'unione coniugale.

In altri termini è necessario che, sia per i tempi, sia per i modi, sussista un rapporto di causalità diretto fra la violazione e la decisione di separarsi.

Tanto con l'essenziale notazione che la verifica in ordine all'esistenza del nesso eziologico deve essere condotta non solo in riferimento alla violazione del dovere di fedeltà, bensì con riguardo a tutte le violazioni dei coniugali.

Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha consolidato un indirizzo interpretativo in base al quale in caso di mancato raggiungimento della prova che la violazione dei doveri matrimoniali sia stata la causa del fallimento coniugale, la separazione deve essere pronunciata senza addebito.


    

   



Avv. Francesco Guido - Avv. penalista e civilista esperto in diritto di famiglia, assicurazioni, successioni

Ho esperienza settoriale in materia di diritto penale per colpa medica e reati contro la persona mentre in diritto civile mi occupo di famiglia e minori, volontaria giurisdizione, assicurazioni, successioni e donazioni. Tratto ampia casistica in tema di modifica accordi di separazione e divorzio, nonché separazione tra coniugi e regime di affidamento dei minori. Sono legale di fiducia di un sindacato autonomo in materia di professioni sanitarie. Dopo la laurea presso l'Università di Roma Tor Vergata, ho conseguito la specializzazione ad indirizzo notarile presso l'Università Magna Graecia di Catanzaro.




Francesco Guido

Esperienza


Diritto civile

Sono autore di una tesi di laurea monografica in Diritto Civile dal titolo "Dichiarazioni inesatte e reticenti nel contratto di assicurazione", relatore il Chiarissimo Prof. Paolo Papanti Pelletier - Ordinario di diritto civile presso l'Ateneo di Roma "Tor Vergata" ove ho conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza nell'anno 2013. Ho conseguito il diploma di specializzazione ad indirizzo notarile presso la S.S.P.P.L. dell'Università "Magna Graecia" di Catanzaro, oltre ad avere frequentato uno studio notarile in Cosenza per uno stage con rilascio di attestato di frequenza. Studio da anni per il concorso notarile.


Diritto di famiglia

Mi occupo quotidianamente di tutti gli aspetti del diritto di famiglia e di volontaria giurisdizione, conferendo peculiare centralità alle separazioni, ai divorzi ed ai c.d. "diritti contesi" dei minori, aggiornandomi costantemente sulle innovazioni giurisprudenziali relative ad istituti particolari quali l'affido esclusivo e l'affido super-esclusivo, nonché l'autorizzazione giudiziale all'espatrio del minore, mediante acquisizione della carta d'identità, in presenza di opposizione dell'altro genitore. Mi occupo regolarmente anche di procedimenti aventi ad oggetto la responsabilità genitoriale (artt. 330 e 333 c.c.).


Eredità e successioni

Ho conseguito il diploma post lauream di specializzazione in ambito notarile, presso l'Università "Magna Graecia" di Catanzaro, a seguito del corso della durata biennale e dell'esame finale, superato con successo. Parallelamente ho frequentato uno studio notarile della città di Cosenza per uno stage obbligatorio, facente parte del percorso di preparazione ai fini dell'ottenimento del titolo di specializzazione. Frattanto ho sempre coltivato gli studi in ambito notarile al fine di poter affrontare il concorso. Com'è noto tali studi prevedono, tra l'altro, un'elevatissima specializzazione nel diritto delle successioni e donazioni.


Altre categorie:

Separazione, Affidamento, Tutela dei minori, Fallimento e proc. concorsuali, Diritto assicurativo, Diritto del lavoro, Diritto penale, Incidenti stradali, Stalking e molestie, Risarcimento danni, Divorzio, Matrimonio, Sicurezza ed infortuni sul lavoro, Sostanze stupefacenti, Diritto condominiale, Malasanità e responsabilità medica, Mediazione, Omicidio, Multe e contravvenzioni, Incapacità giuridica, Diritto sindacale, Negoziazione assistita, Tutela del consumatore, Edilizia ed urbanistica, Previdenza, Gratuito patrocinio, Domiciliazioni.


Referenze

Pubblicazione legale

Il trust interno

Pubblicato su IUSTLAB

Nel quotidiano svolgimento dell’attività professionale forense mi sono, non di rado, imbattuto nella controversa tematica del “ diritto di cittadinanza ” nel nostro ordinamento dell’istituto del trust interno , la cui validità è stata fonte di acceso dibattito in dottrina e di pronunce giurisprudenziali contrapposte. Prima di entrare nel merito dell’oggetto del presente articolo è però d’uopo non dare per scontata la nozione di “ trust ” e svolgere quindi, per brevi cenni, alcune considerazioni generali in merito all’istituto. Il riferimento normativo nazionale è la Legge n. 364 del 1989 che introduce il “ trust ” nell’ordinamento italiano, recependolo dal diritto comunitario che all’art. 2 della Convenzione dell’Aja viene testualmente riferito ai: “ rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato”. Tanto con notazione che i beni destinati al trust restano scissi dai beni di proprietà del trustee che non può, quindi farli propri, né confonderli con il patrimonio personale. Il trustee, in altri termini, è il formale intestatario dei beni ma non anche il proprietario. Ciò non di meno egli ha il potere di amministrarli, gestirli e disporne, sempre in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme civilistiche imposte al trustee dall’ordinamento, con l’obbligo di rendere conto del proprio operato, posto che è responsabile (anche penalmente) delle sorti del compendio dei beni facenti parte del trust. Nello svolgimento della riflessione in esame è, a mio avviso, imprescindibile fare menzione della nota sentenza della Cassazione Penale n. 50672/2014 che, in tema di trust, trustee ed appropriazione indebita, non ha posto in dubbio la validità del trust interno ed anzi ha gettato le basi per una definizione più precisa dell’istituto. A tal fine rileva la S.C. che: “ devono assumere rilevanza preminente, nell’interpretazione del negozio sia il vincolo di destinazione che grava sui beni (che, determinandone la funzione economico-sociale, ne impedisce la commistione con il patrimonio del trustee ) sia l’esistenza di beneficiari del negozio fiduciario, a favore dei quali deve indirizzarsi tutta l’attività di gestione dei beni e rapporti conferiti nel trust, dovendosi attribuire all’intestazione formale del diritto di proprietà al trustee la valenza di una proprietà temporale, sostanziata dal possesso del bene, sicuramente diversa da quella delineata nell’art. 832 cod. civ. e svincolata dal potere di disporre dei beni in misura piena ed esclusiva”. Al di là delle considerazioni che precedono, improntate alla definizione generale dell’istituto del trust, lo specifico oggetto della nostra analisi è la verifica in ordine alla possibile validità o meno della speciale figura del trust interno (o c.d. domestico) nel nostro ordinamento. Per trust interno s’intende quel rapporto giuridico costituito da cittadini residenti in Italia con beni situati nel territorio nazionale, a favore di beneficiari italiani, disciplinato da una legge straniera. In altri termini è definito interno il trust che non presenta elementi di contatto con ordinamenti giuridici stranieri, eccezion fatta per la legge regolatrice che rappresenta l’unico elemento “esterno” rispetto all’ordinamento italiano. I problemi interpretativi intorno all’ammissibilità di un siffatto istituto “ibrido” – con elementi oggettivi e soggettivi italiani e legge regolatrice internazionale - nascono dal conflitto esistente fra la concezione anglosassone di trust e ed i principi dell’ordinamento italiano in tema di rapporti di proprietà, tutela dei terzi e successioni. Prescindendo però da questa sede i pur necessari approfondimenti dottrinari in tema di trust e del rapporto con l’art. 2740 c.c. , conviene, adesso, incentrare l’attenzione su un’altra interessante pronuncia della giurisprudenza di merito che va ben oltre la mera definizione del trust data dalla cennata sentenza della Cassazione Penale, proclamandone, addirittura, in modo espresso la validità. Si fa riferimento al decreto del Tribunale di Milano, 23 febbraio 2005 che, in tema di omologazione degli accordi di separazione personale tra coniugi, aventi ad oggetto il trasferimento di beni immobili, sancisce quanto segue: “ può essere omologato un accordo di separazione consensuale prevedente l’istituzione, da parte di uno tra i coniugi, di un trust interno autodichiarato nel quale il disponente, allo scopo di soddisfare le esigenze abitative della figlia minorenne, conferisce un bene immobile di sua proprietà ”. La pronuncia è parsa, fra altre, quella che più nettamente sancisce il diritto di cittadinanza del trust interno nel nostro ordinamento. Se infatti si considera la tradizionale “ prudenza ” del giudicante italiano in tema di clausole relative agli accordi di separazione consensuale, appare particolarmente “ forte ” il richiamo all’ammissibilità del trust interno come strumento di regolazione di quei peculiari rapporti. Il varrebbe a dire che se ammettessimo il trust interno nella delicata materia dell’omologazione delle clausole di separazione, a maggior ragione non vi è ambito del diritto che ne possa escludere l’utilizzo. Al di là dello specifico, quanto peculiare, caso che precede, sembra opportuno, pertanto, concludere per l’ammissibilità del trust interno nell’ordinamento italiano, non solo e non tanto in virtù dell’ormai costante indirizzo giurisprudenziale, ma, soprattutto in merito al sempre crescente numero di autori che ritengono ammissibile e – quindi – valido l’istituto in quanto l’elemento necessario di estraneità (al fine di considerarlo esterno, alias non domestico) sia costituito dalla scelta della legge straniera quale regolatrice dei rapporti. Bibliografia: P. Perlingieri, V. Rizzo, Negozio fiduciario e Trust in P. Perlingieri, Manuale di diritto Civile, Napoli 2005 M. F. Giorgianni, N. Fibbi, Quid Iuris? in Diritto Notarile, Collana diretta da L. Genghini, ottobre 2016

Pubblicazione legale

Il conflitto di interessi nella donazione tra genitori e figli

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L'art. 320, comma 3° del Codice Civile dispone: " I genitori non possono alienare, ipotecare o dare in pegno i beni pervenuti al figlio a qualsiasi titolo, anche a causa di morte, accettare o rinunziare ad eredità o legati, accettare donazioni [...]". Si è posto, pertanto, il problema se nella donazione dei genitori a beneficio del figlio minore questi possano, previa l'autorizzazione del giudice, di cui al 3° comma dell'art. 320 c.c., intervenire in atto, sia nella qualità di donanti, sia in quella di rappresentanti del minore donatario. La rilevanza della questione è di immediata comprensibilità avuto riguardo del fatto che, ai sensi dell'art. 322 c.c. l'atto compiuto in violazione delle norme che regolano la rappresentanza e l'amministrazione dei beni del minore può essere annullato. Al fine di rispondere al quesito è necessario, anzitutto, stabilire se tra il genitore donante ed il minore donatario sussista o meno un conflitto d'interessi. La dottrina maggioritaria ha risposto negativamente, argomentando che nella donazione gli interessi del donante e del donatario coincidono ed il minore non corre alcun rischio patrimoniale ( A. Guerra , L'accettazione della donazione fatta dal padre al figlio minore; B. Biondi , Le donazioni ). Esclusa l'esistenza di un conflitto d'interessi è però discusso su chi debba intervenire in atto per accettare la donazione in rappresentanza del minore. Un filone minoritario, quanto risalente, ha sostenuto che il genitore stesso, ottenuta l'autorizzazione del giudice tutelare, può validamente accettare la donazione in nome e per conto del figlio donatario. E' però preferibile l'orientamento di quegli autori i quali sostengono che dovrebbe essere il genitore non donante a rappresentare il figlio minore in atto, posto che l'istituto del contratto con sé stesso non trova applicazione nella rappresentanza legale ( A. Galluccio , Contributo alla dottrina dei contratti con sé stesso ) in quanto il minore (incapace per definizione) non può, come richiesto dall'art. 1395 c.c. autorizzare il rappresentante o predeterminare il contenuto del contratto. Quanto precede per non dire, poi, che sarebbe illogico concedere allo stesso donante il potere di accettare la donazione, posto che trattasi di un contratto che prevede la compresenza di più contraenti. Non è però mancato l'avviso giurisprudenziale a mente del quale vi sarebbe, invece, un vero e proprio conflitto d'interessi tale da escludere la possibilità che il genitore donante possa rappresentare in atto il minore donatario. Questa lettura è stata fatta propria dalla Suprema Corte ( Cass. 19 gennaio 1981, n. 439 ), sull'assunto per cui la donazione costituisce sempre un atto potenzialmente idoneo a recare pregiudizio al patrimonio del minore, come dimostra proprio la formulazione dell'art. 320, comma 3° c.c., che prevede la necessità di un'autorizzazione affinché il genitore possa accettare una donazione in luogo del figlio minore. Inoltre il conflitto d'interessi sarebbe da rintracciare nella circostanza che il donatario, ai sensi e per gli effetti dell'art. 437 c.c., sia pure nei limiti del valore della cosa donata, è tenuto con precedenza su ogni altro obbligato, a prestare gli alimenti al donante. Pertanto, escluso che il genitore donante possa rappresentare in atto il minore donatario, al fine di identificare il soggetto legittimato ad accettare la donazione in luogo del minore non resta che chiedersi se il conflitto d'interessi si sostanzi anche nei confronti del genitore non donante. Secondo la Suprema Corte anche il genitore non donante, se coniugato con il genitore donante, si trova in una situazione di conflitto di interessi con il figlio minore donatario e, pertanto, è necessario domandare giudizialmente la nomina di un curatore speciale che intervenga in luogo del minore ( Cass. Civ. 19 gennaio 1981, n. 439 ). In questo caso si averbbe conflitto d'interessi in quanto la donazione potrebbe ledere i diritti ereditari spettanti al coniuge non donante, ex art. 540 c.c. ed eventualmente agli altri figli laddove il genitore non donante sia anche co-donatario. Secondo un avviso del tutto diverso il genitore non donante può legittimamente intervenire in atto per accettare la donazione in luogo del figlio minore donatario, mancando qualsiasi conflitto d'interessi ( A. Finocchiaro - M. Finocchiaro , Diritto di Famiglia ). E' comunque da riferire che la dottrina prevalente e parte della giurisprudenza negano l'insorgenza del conflitto d'interessi, in quanto sia l'insorgere dell'obbligazione alimentare, sia la lesione dei diritti successori del coniuge, sono situazioni eventuali ed incerte per cui il conflitto è, in realtà, solo potenziale e, quindi, irrilevante. Nel caso in cui a donare siano entrambi i genitori oppure l'unico genitore esercente la responsabilità genitoriale, si rende necessaria la nomina di un curatore speciale che intervenga in atto in rappresentanza del minore donatario. Bibliografia: L. Mambelli - J. Balottin, Glossario Notarile, Giuffrè Editore, 2013

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Usucapione delle pertinenze e scindibilità del vincolo pertinenziale

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La possibilità di usucapire le pertinenza, indipendentemente dalla sorte della “ res ” principale, rappresenta solo apparentemente un problema di scarsa rilevanza nella realtà dei rapporti giuridici. In realtà la casistica dimostra che è tutt’altro che un caso di scuola, specie se si pensa a, titolo esemplificativo, al non raro caso dell’utilizzo ininterrotto ed esclusivo della soffitta, magari per decenni, da parte di chi non è proprietario dell’appartamento al quale era originariamente legata dal vincolo pertinenziale . Quella sin qui descritta è, però, la situazione di fatto, mentre, ciò che a noi interessa comprendere è se, sotto il profilo giuridico, detta situazione sia o meno suscettiva di determinare quegli speciali effetti che l’ordinamento riconosce al possesso, al ricorrere di determinate condizioni, vale a dire l’usucapione . La nostra analisi prescinderà dall’approfondire la disamina dei concetti giuridici di “pertinenza” e di “usucapione”, dandoli per scontati, salvo per alcune fondamentali precisazioni sui requisiti in presenza dei quali il possessore diviene proprietario del bene, realizzando, così, l’esigenza della garanzia della certezza dei rapporti giuridici. Le caratteristiche (da intendersi in senso tassativo) per usucapire validamente un bene sono: il possesso pacifico o non conseguito con mezzi violenti, pubblico (alias non clandestino), ininterrotto e continuo . Non è, invece, ritenuto necessario il requisito della “buona fede”, posto che anche il possesso in malafede è idoneo a fondare l’usucapione ex art. 1158 c.c. Fermo quanto precede è però da considerare che l’indagine sull’acquisto dei beni, specialmente quelli immobili, tramite usucapione, non si limita all’accertamento circa la sussistenza dei requisiti oggettivi sin qui esposti, in quanto spetta all’interprete scendere altresì nel merito dell’eventuale ricorso dell’elemento soggettivo : il c.d. “ animus possidendi ” in capo al presunto acquirente. Ovviamente non è sufficiente il mero sussistere delle condizioni sin qui esposte al fine di acquisire in via automatica e fattuale la proprietà di un bene immobile, essendo, invece, necessario rivolgersi al Giudice per l’ottenimento di una sentenza dichiarativa del diritto vantato ( n. b. la sentenza non ha carattere dichiarativo e gli effetti dell’usucapione retroagiscono). Nel corso del procedimento l’onere probatorio circa la sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi suesposti, grava sulla parte attrice , alias sul preteso proprietario, mentre il (proprietario) convenuto ha l’onere di dimostrare i vizi del possesso altrui, impeditivi dell’acquisto della proprietà ( Corte di Appello di Ancona sentenza del 02.03.2005; nello stesso senso Cass. Civ. sez. II, 16.03.2000, n. 3063 ). Svolte le considerazioni di carattere generale che precedono, è necessario ricondurre l’attenzione sul peculiare (e per nulla scontato) tema dell’ usucapione delle pertinenze . Ci si è chiesto, in altri termini, se sia o meno possibile usucapire la singola pertinenza separatamente dal bene principale cui è ab origine connessa. E’, anzitutto, pacifico che, sulla base di quanto è previsto ex art. 818 c.c. le pertinenze possono essere usucapite in uno con la cosa principale, nel senso che l’acquisto a titolo originario di un bene collegato funzionalmente ad un altro, può essere riconosciuto “automaticamente” per il noto principio della Suprema Corte secondo cui: “ gli atti ed i rapporti giuridici delle pertinenze seguono, seguono in regime giuridico della cosa principale, se non diversamente disposto ” (Cassazione Civile, sez. II, 19.03.1999, n. 2531). Ha, invece, sovente rappresentato oggetto di incertezza giuridica la situazione contraria, ossia il caso in cui la sola pertinenza sia oggetto di usucapione , separatamente dal bene principale. Autorevole dottrina (R. Mazzon) ha, ad avviso dello scrivente, esaurientemente dato risposta positiva al quesito, ammettendo l’usucapibilità autonoma e distinta delle pertinenze: “[…] in effetti, in tema di giudizio volto all’accertamento della proprietà di un bene immobile per intervenuta usucapione, la circostanza che esso sia destinato a pertinenza rispetto ad un altro bene di proprietà dell’istante non fa venire meno la necessità di procedere all’accertamento richiesto, non potendo tale destinazione essere considerata, di per sé, alla stregua di un modo di acquisto della proprietà” (R. Mazzon, Usucapione di beni mobili e immobili, Maggioli editore 2013; Cass. Civ., sez. II 13.02.2006, n. 3069). A riprova di quanto precede è appena il caso di richiamare il principio, oramai condiviso dalla dottrina prevalente, della scindibilità del vincolo pertinenziale , nel senso dell’alienabilità della pertinenza indipendentemente dal bene principale (è, ad esempio, il caso degli spazi condominiali assegnati ed adibiti a parcheggio, rispetto ai quali non si dubita che possano costituire oggetto di compravendita, a prescindere che sia o meno trasferita la proprietà dell’unità immobiliare cui sono collegati da vincolo pertinenziale). Ne deriva, a fortiori , che se la pertinenza può costituire oggetto di trasferimento della proprietà, indipendentemente dalla “ res ” principale, può ben costituire oggetto dell’usucapione.

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