LO STUDIO BALDI PERGAMI BELLUZZI, fondato dall’Avv. Massimo Baldi Pergami Belluzzi, ha sede a via Cicerone 28, nel centro storico di Roma, davanti alla Suprema Corte di Cassazione. L’Avv. Massimo Baldi Pergami Belluzzi, iscritto all’albo degli avvocati di Roma ed abilitato al patrocinio dinanzi alla Corte di Cassazione, Consiglio di Stato, Corte Costituzionale assiste società e privati nel contenzioso nelle aree del diritto civile, commerciale, industriale, tributario, del lavoro, amministrativo, diritto penale-tributario,
Esperienza consolidata di oltre 15 anni in materia di diritto tributario e di diritto penale tributario
Esperienza consolidata di oltre 15 anni in ambito penale, in particolar modo per reati da "colletti bianchi" societari, tributari.
Specializzazione in materia di marchi, sia in ambito civile, sia penale
Diritto condominiale, Diritto civile, Diritto di famiglia, Separazione, Divorzio, Matrimonio, Affidamento, Adozione, Diritto commerciale e societario, Fusioni e acquisizioni, Fallimento e proc. concorsuali, Proprietà intellettuale, Brevetti, Recupero crediti, Pignoramento, Contratti, Diritto del lavoro, Mobbing, Licenziamento, Stalking e molestie, Reati contro il patrimonio, Omicidio, Sostanze stupefacenti, Ricorso al TAR, Aste giudiziarie, Locazioni, Sfratto, Incidenti stradali, Tutela del consumatore, Arbitrato, Gratuito patrocinio, Cassazione.
Ricorso patrocinato dall’avvocato Massimo Baldi PB dinanzi al tar nell’interesse di oltre 200 ricorrenti tra i quali l’associazione SOS Coronari, per l’annullamento della delibera del comune di Roma che aumentava del 1000% (millepercento) le tariffe per l’ottenimento del permesso per accedere alla zona ZTL da parte dei residenti. Il ricorso è stato accolto e la delibera annullata.
Con una recente sentenza, la n. 28158/2019, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla questione della configurabilità della responsabilità, a titolo di concorso, del professionista, in partticolare il consulente contabile (ragioniere o commercialista che sia o anche consulente del lavoro) per i reati tributari commessi dai propri clienti e, nella fattispecie, del commercialista per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti. Ancorché tale sentenza non sia particolarmente innovativa, ripercorrendo piuttosto l’evoluzione giurisprudenziale sul punto e confermando gli approdi già raggiunti, la questione ivi affrontata merita oggi una rinnovata attenzione, considerato che il c.d. decreto “carcere agli evasori” (Decreto-legge n. 124 del 26 ottobre 2019, poi convertito in legge con Legge n. 157 del 19 dicembre 2019) ha inasprito le pene per chi si macchia di reati tributari e, dunque, anche per chi – potenzialmente anche il consulente del “contribuente disonesto” – vi concorra. Ebbene, è noto che i reati tributari, di cui alla D. Lgs. 74/2000, sono in buona parte dei c.d. reati “ propri ” o a soggettività ristretta, ossia il cui autore ricopre una qualifica o un ruolo precisamente individuato dal legislatore ( rappresentante legale, amministratore unico, amministratore delegato, sindaco, liquidatore ecc .); inoltre, le condotte che integrano tali delitti sono tipizzate in tutti i loro elementi. Di conseguenza, non ricoprendo, di solito, il professionista alcuna di quelle determinate qualifiche e non mettendo egli stesso in atto – perlomeno materialmente – quelle condotte espressamente previste dalla legge, si potrebbe arrivare all'estrema- ed erronea- conclusione di ritenere che quest’ultimo sia sempre esente da responsabilità per le condotte di reato commesse dal proprio cliente. Invero, le norme sul concorso di reato consentono di punire altresì soggetti terzi che commettano condotte atipiche poste in un rapporto di “ efficacia causale ” rispetto alla commissione del reato. Conseguentemente, la Suprema Corte ha ribadito il principio, in realtà già consolidato, che ben può sussistere una siffatta responsabilità penale, a titolo di concorso, in capo al commercialista, rispetto al reato commesso dal proprio cliente, precisando che è a tal fine sufficiente il c.d. “ dolo eventuale ”, ossia la mera prospettazione ed accettazione – da parte del professionista – del rischio che l’attività svolta nell’interesse del cliente-contribuente possa essere finalizzata alla commissione del reato tributario. Quanto detto fin ora non deve, comunque, portare all'eccesso opposto, ovvero quello di ritenere che il professionista, variamente inteso, abbia una posizione di garanzia rispetto ai delitti commessi dal proprio cliente, in virtù della quale possa essere chiamato a rispondere per non aver controllato o non aver dissuaso condotte illecite proprie del contribuente. Invero, la giurisprudenza ha tentato di fissare dei criteri quanto più possibile obbiettivi per definire i labili confini fra l’attività professionale lecita e non penalmente rilevante, e quella che, invece, oltrepassi i limiti della legalità, mettendo in campo competenze tecniche a favore della commissione di reati. La Suprema Corte, nell'esercizio della propria funzione nomofilattica, ha stabilito che il giudice di merito, chiamato a decidere in ordine alla partecipazione del professionista al reato del contribuente, dovrà affrontare principalmente due questioni: 1) quella del “ contributo causale ” apportato dalla condotta del professionista alla realizzazione del fatto tipico, valutando se, in assenza di quel contributo, il reato non si sarebbe verificato o comunque avrebbe avuto minor probabilità di riuscita; 2) quella della sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo richiesto della norma, anche nella forma del c.d. dolo eventuale. Il contributo penalmente rilevante, secondo i criteri individuati dalla giurisprudenza, è quello che agevoli il reato o rafforzi il proposito delittuoso. Esso può manifestarsi sotto forma sia di concorso morale (è il caso, ad esempio, di consulenze che sfocino nella istigazione, nell’agevolazione, nell’ideazione o nella programmazione del reato), sia di concorso materiale. Anche in quest’ultima ipotesi – chiariscono i giudici di legittimità nella sentenza sopra menzionata – può essere penalmente rilevante anche una condotta diversa da quella tipica prevista nella fattispecie delittuosa, “ fermo restando l’obbligo del giudice di merito di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata ”. Nella fattispecie oggetto della sentenza in questione, l’efficienza causale del contributo del professionista rispetto alla commissione del reato appariva piuttosto evidente, in quanto ricavabile da diverse circostanze obbiettive, tra cui: 1) la predisposizione da parte dello stesso della documentazione contraffatta destinata a supportare le fittizie appostazioni contabili nelle relative dichiarazioni fiscali; 2) la sua attiva partecipazione nelle vicende societarie; 3) la accessibilità da parte dello stesso al sistema informatico della società per ottenere report contabili; 4) il suo ruolo di consulente fiscale della Società contribuente e di tutte le società facenti capo alla stessa, alcune delle quali avevano anche sede presso il suo studio; 5) una serie di intercettazioni da cui emergeva la sua preoccupazione per alcuni controlli da parte della Guardia di Finanza, nonché la sua decisa volontà di prodigarsi per la “ sistemazione documentale ” di vistose irregolarità contabili. Per quanto attiene, invece, all’ elemento soggettivo che, nella fattispecie, è quello del dolo specifico da individuarsi, ai sensi dell’art. 2, D. Lgs. 74/2000, nel “ fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto ”, pare vi sia, nel caso in esame, una certa sovrapposizione fra gli elementi da cui emerge il contributo fattuale e quelli da cui emerge la consapevolezza e l’accettazione da parte del professionista delle specifiche finalità criminali del contribuente. Ciò, invero, è del tutto ragionevole, alla luce del significativo coinvolgimento del consulente fiscale nella preparazione materiale del reato, dal quale è agevole ricavare il dolo senza la necessità di una motivazione particolarmente rafforzata, come quella che, d’altro canto, si esigerebbe nel caso di concorso morale o comunque di un apporto minore sotto il profilo materiale. È evidente, poi, che la configurabilità del reato anche in caso di dolo meramente eventuale, rende, da un lato, maggiormente possibile l’integrazione del delitto tributario a titolo di concorso, dall’altro, meno pregnante l’obbligo di motivazione da parte del giudice di merito sulla sussistenza dell’elemento soggettivo. È, comunque, doveroso precisare che il caso qui affrontato pare connotato da una particolare evidenza della prova e, come si è detto, da una partecipazione attiva alla realizzazione del reato nella sua fase preparatoria. Ma, certamente, l’assistenza tecnica dei professionisti ai propri clienti contribuenti non ha sempre tali caratteri di concretezza e materialità, risolvendosi spesso in mera attività di consulenza e pareristica. In questi casi, in cui è profilabile in astratto un c.d. concorso morale, l’analisi dell’elemento soggettivo dovrà essere più rigorosa, dovendo il giudice valutare se il professionista abbia agito con neutralità o, diversamente, abbia avuto un ruolo di ideazione e programmazione, o, comunque, di istigazione o agevolazione del delitto. Avv. Massimo Baldi Pergami Belluzzi
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Con la sentenza n. 13747 del 2018 la Corte di Cassazione Sez. ha avuto modo di affermare che " “ ..... il reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, punito dall'art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, sussiste sia nell'ipotesi di inesistenza oggettiva dell'operazione (ovvero quando la stessa non sia mai stata posta in essere nella realtà), sia in quella di inesistenza relativa (ovvero quando l'operazione vi è stata, ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura) sia, infine, nel caso di sovrafatturazione "qualitativa", in quanto oggetto della repressione penale è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale. ” (Di recente in senso analogo si rinviene la sentenza della Suprema Corte n. 24105 del 23 marzo 2018. In senso analogo vedi anche Cass. pen. Sez. III, n. 2835, 2013). Alla luce di questo arresto giurisprudenziale, nonchè del successivo avutosi con la Sentenza n. 21996 del 02/03/2018 molti commentatori si sono affrettati a sostenere come la S.C. abbia voluto affermare il principio secondo cui in tema di dichiarazione fraudolenta a mezzo fatture per operazione inesistenti (art. 2 Dlgs 74/2000), il concetto di "inesistenza" ricomprenda accanto all’ipotesi di inesistenza oggettiva o soggettiva, anche l'ipotesi di inesistenza giuridica . Sempre secondo la dottrina espressasi anteriormente al 2015 e la citata giurisprudenza, la categoria delle operazioni oggettivamente inesistenti comprendrebbe le operazioni non realmente effettuate da un punto di vista fattuale . Tale inesistenza oggettiva si confiurerebbe, pertanto, quando l'operazione non esiste in rerum natura ( ad esempio, viene emessa la fattura per l'acquisto di un computer ma il computer non è stato mai venduto, ma l'iva e l'imponibile della fattura vengono posti in detrazione dal falso acquirente ) Tuttavia, sia la giurisprudenza, nella citata sentenza, sia parte della dottrina, ritenevano anche " oggettivamente " inesistenti, il negozio simulato, ovvero un'operazione nella quale le parti davano alla prestazione una qualificazione "giuridica"diversa al fine di creare un vantaggio fiscale alla controparte . (un caso tipico, sarebbe quello del contratto di mutuo "rivestito" da contratto di leasing, al fine di permettere all'utilizzatore del bene di ottenere un vantaggio fiscale.) Questa tipologia di inesistenza oggettiva, qualificata come " inesistenza giuridica ", consisterebbe quindi in una difforme vestizione giuridica del negozio, che in modo simulato viene qualificato in modo difforme con evidenti vantaggi fiscali di una delle parti. Parte della dottrina, tuttavia, si opponeva a tale approccio, che avrebbe reso "censurabile" qualsiasi tipo di operazione- anche se lecita ed esistente- ed avrebbe esposto il contribuente all'arbitrio dell'Amministrazione, la quale avrebbe potuto sempre contestare ogni negozio giuridico, laddove ritenuto simulato, anche in considerazione del fatto che, quasi sempre la presunta illiceità di una operazione viene desunta a posteriori tramite presunzioni, gravi precise concordanti e non ex ante sulla base di elementi concreti di prova certa. A tutto voler concedere, comunque, tale categoria di inesistenza per simulazione e giuridica tout court , avrebbe dovuto trovare albergo nell'art. 3 della normativa che, in quel momento, puniva il contribuente che con " altri artifici " riduceva il suo imponibile soggetto ad imposta. Ricordiamo però come la norma di cui all'art. 3, prevedeva- e prevede tuttora- delle soglie di puniblità, così di fatto limitando i poteri delle Procure nella contestazione dei reati,. Ecco perchè, nella pratica, le Procure procedevano quasi sempre alla contestazione dell'art. 2, che non prevedeva alcuna soglia di punibilità. Da ultimo, la c.d. Inesistenza soggettiva , si verifica quando i soggetti indicati nel documento fiscale non sono i reali soggetti fra i quali è intercorsa l’operazione. (es. Un appalto viene eseguito dalla ditta "ALFA" a favore del committente "BETA" ma la fattura la emette, in luogo di ALFA, la società "GAMMA" - che magari ha crediti di imposta e quindi può avere corrispettivi senza poi versare le imposte all'erario- a favore della società " DELTA", che così si pone in detrazione il costo). Tale operazione è indubitabilmente riconducibile all'inesistenza soggettiva sanzionata con l'articolo 2 Dlgs 74/2000. Una particolare forma di inesistenza soggettiva è rinvenibile nella c.d. interposizione fittizia e interposizione reale di persona. L’interposizione fittizia si ha quando nel documento figuri una determinata parte quando in realtà gli effetti del negozio si producono nei confronti dell’interponente. Un’operazione del genere richiede la presenza di tutti e tre i soggetti, mentre nell’interposizione reale, detta anche fiduciaria, l’interposto, d’accordo con l’interponente, contratta con il terzo senza che quest’ultimo ne sia a conoscenza. L’interposto contratta con il terzo, ma la sua contrattazione è viziata dall’accordo di trasferire gli effetti del negozio al reale contraente. Secondo l'opinione prevalente- nonostante arresti giurisprudenziali difformi- l'interposizione reale- quindi ignota al terzo- è un'operazione lecita, in quanto il terzo non è al corrente delle reali intenzioni delle altre due parti, e comunque esistente, quindi non penalmente rilevante. La questione dell'inesistenza giuridica testè affrontata è stata parzialmente modificata e risolta nel 2015, quando il D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, ha modificato la normativa, ed in particolare ha modificato l'art. 3, che quindi ha assunto il seguente tenore: " 1. Fuori dai casi previsti dall'articolo 2, e' punito con la reclusione tre a otto anni (1) chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione finanziaria, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi, quando, congiuntamente : a) l'imposta evasa e' superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro trentamila; b) l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, e' superiore al cinque per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, e' superiore a euro un milione cinquecentomila, ovvero qualora l'ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell'imposta, e' superiore al cinque per cento dell'ammontare dell'imposta medesima o comunque a euro trentamila. Il fatto si considera commesso avvalendosi di documenti falsi quando tali documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono detenuti a fini di prova nei confronti dell'amministrazione finanziaria Ai fini dell'applicazione della disposizione del comma 1, non costituiscono mezzi fraudolenti la mera violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili o la sola indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali." Alla luce della modifica di questa norma, una parte degli studiosi ha ritenuto nuovamente che l’inesistenza giuridica dovesse essere qualificata come inesistenza oggettiva e pertanto, potesse essere contestato l'art. 2- privo di soglie di punibilità-. Una seconda tesi dottrinaria, ritiene invece che l'inesistenza giuridica dovesse rientrare esclusivamente nel concetto di operazioni simulate oggettivamente di cui all’art. 3 d.lgs 74/2000, così come delineato dal novellato art.1, lettera g-bis)27, in quanto operazioni che i contraenti “in parte” non intendono realizzare. La stessa dottrina ritiene sempre, come già evidenziato nel vigore della disciplina previgente, che la definizione di operazioni inesistenti di cui all’art. 1 lettera a) si riferisca alle operazioni non “realmente” effettuate, comprendendo soltanto le operazioni materialmente inesistenti. La tesi preferibile appare quella secondo cui si considerino inesistenti solo le operazioni mai poste in essere in natura o poste in essere da soggetti diversi, mentre se viene contestata la natura giuridica dell'operazione o lo strumento utilizzato, si applicherà l'art. 3 che prevede soglie di punibilità e che prevede l'assolvimento di un onere probatorio maggiore al fine di accertare la reale volontà fraudolenta delle parti a porre in essere un'operazione simulata oggettivamente.
Una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione ( Civile Sent. Sez. 5 Num. 26895 Anno 2019 Presidente: BRUSCHETTA ERNESTINO LUIGI ), ha affrontato un tema molto rilevante in materia di validità delle cartelle di pagamento (comunemente note come CARTELLE ESATTORIALI) in assenza di sottoscrizione del responsabile del procedimento di iscrizione a ruolo del credito tributario. Tale sentenza permette approfondire il tema giuridico dei ruoli esattoriali e quello della loro validità ed efficacia. A) Il concetto di " iscrizione a ruolo esattoriale" si riferisce all’attività che la pubblica amministrazione (c.d. Amministrazione finanziaria ) creditrice di somme verso il privato (c.d. Contribuente ) in base ad atti quali avvisI di accertamento, di liquidazione o di irrogazione di sanzione (anche, a titolo esemplificativo, del codice della strata, irrogate da enti previdenziali ed assistenziali), omesso versamento di imposte e tributi, ecc. (il novero è alquanto vasto e variegato) comunica tale posizione creditoria al soggetto (c.d. Agente della Riscossione ) che si occuperà di tentare di recuperare quanto dovuto all'Amministrazione. In sostanza, con l'iscrizione a ruolo, si passa dalla fase di accertamento alla fase di esecuzione e il dossier della pratica viene trasferito, per competenza, all'agente della riscossione (attualmente Agenzia delle Entrate Riscossione, già Equitalia). Il documento che viene inviato dall’amministrazione finanziaria, viene definito "ruolo". B) Il ruolo, ai sensi dell’art. 10 DPR 602/73, è l’elenco nominativo dei debitori e delle somme da essi dovute formato dall’Ufficio ai fini della riscossione a mezzo del concessionario, di solito Agenzia delle Entrate riscossione. Il ruolo contiene l’indicazione: dei dati anagrafici del contribuente; del suo codice fiscale; della natura del ruolo e del credito per il quale si chiede di procedere all'esecuzione forzata; della data in cui il ruolo diviene esecutivo; del riferimento all’eventuale precedente atto di accertamento, ovvero, in mancanza, della motivazione, anche sintetica, della pretesa tributaria; del periodo di imposta, delle somme dovute con separata indicazione e descrizione di ogni componente il credito erariale, del totale iscritto a ruolo, del numero di rate in cui il ruolo deve essere riscosso, importo e cadenza di ciascuna di esse. C) Cosa diversa dal ruolo è il c.d.“ estratto di ruolo ” è invece l’elenco delle somme dovute da ogni singolo debitore. D) La Pubblica Amministrazione creditrice delle somme contenute nel Ruolo, sulla base di quanto disposto dell’art. 24 DPR 602/73 coordinato con il D.M. 3/9/1999 n. 321, consegna via telematica il ruolo al concessionario per la riscossione il quale, a sua volta, notifica la cartella di pagamento al debitore. La cartella deve contenere, a pena doi invalidità, ai sensi dell’art. 25 DPR 602/1973, l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro sessanta giorni dalla notificazione, con l’avvertimento che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata. La cartella, in base a quanto stabilito da decreto del Ministero delle Finanze, deve contenere interessi e sanzioni distinti per codice e descrizione. E) La cartella di pagamento può essere impugnata entro 60 giorni dalla notifica della stessa. Si sostiene che quando il ruolo deriva da un precedente avviso di accertamento, di liquidazione o di irrogazione di sanzione - che deve già essere stato oggetto di precedente comunicazione al debitore - la cartella può essere opposta soltanto per vizi propri, quali, ad es., la mancata indicazione degli elementi essenziali della cartella previsti dalla legge, la notifica irregolare, ecc.. Diversamente il contribuente può contestare anche i profili attinenti il merito della pretesa tributaria qualora – come nel caso di controlli automatici ex art. 36-bis DPR 600/73 o formali ex art. 36-ter DPR 600/73 - la cartella rappresenta il primo atto impositivo notificato al contribuente. F) Tra i possibili profili, di invalidità della cartella di pagamento, va individuata anche l'omessa indicazione del responsabile del procedimento di iscrizione a ruolo e di quello di emissione e di notificazione della stessa cartella. Infatti, ai sensi dell'art. 36, comma 4-ter, del decreto legge 31 dicembre 2007, n. 248, la cartella di pagamento di cui all'articolo 25 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni, deve contenere a pena di nullità, l'indicazione del responsabile del procedimento di iscrizione a ruolo e di quello di emissione e di notificazione della stessa cartella. La mancata indicazione dei responsabili dei procedimenti nelle cartelle di pagamento consegnati all'agente della riscossione a far data dal 1° giugno 2008, comporta l'invalidità della certella di pagamento impugnata. Con tale decisione, la Corte di Cassazione ( Sent. Sez. 5 Civile Num. 26895 Anno 2019, ha annullato la sentenza della Commissione Tributaria regionale che aveva ritenuto detto profilo assolutamente superabile e, comunque, non comportante l'invalidità della cartella di pagamento mpugnata.
Ricorso tributario patrocinato dal l’avv. Massimo Baldi, conseguente ad una indagine di natura penale effettuata dalla Guardia di finanza, da cui sarebbero emerse operazione di riciclaggio di denaro. Annullamento del conseguente avviso di accertamento emesso dall’agenzia delle Entrate, in quanto illegittimo
Superamento dell’esame indetto dal Consiglio Nazionale Forense, per ottenere il patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori
Una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione ( Cassazione Civile, sez. II Num. 1630 Anno 2020 ), ha affrontato un tema molto caro ai nostri lettori, ovvero se il condominio- ed il suo amministratore- abbiano una autonoma legittimazione processuale e sostanziale rispetto all'accertamento dei diritti reali- nel caso di specie, usucapione delle parti comuni da parte di condomini nei cui confronti l'amministratore aveva agito per richiedere il rilascio di parti comuni abusivamente occupate. Rispetto a questo tema, la Suprema Corte ha avuto modo di ribadire che l'amministratore è sempre legittimato, senza necessità di autorizzazione dell'assemblea dei condomini, ad instaurare il giudizio per ottenere il rilascio di un bene condominiale anche mediante la richiesta di demolizione di opere, essendo il recupero del bene essenziale per l'ulteriore fruizione dello stesso bene da parte di tutti i condomini. (conformi, ex plurimis Cass. Civ. Sez. 3, Sent. n. 1768 del 2012, Cass. Civ. Sez. 2, Sent. n. 18207 del 2017, Cass. Civ.Sez. 2, Sent. n. 16631 del 2007, Sez. 2, Sent. n. 16230 del 2011). A tale legittimazione processuale attiva consegue anche la legittimazione processuale passiva del condominio e del suo amministratore – e non i singoli condomini- a resistere in caso di conseguenti azioni di accertamento da parte di un condomino sulle parti comuni. Come anticipato, però, la sentenza dà anche lo spunto per affrontare, oltre al tema in questione, anche il tema più generale relativo ai poteri conferiti agli amministratori di condominio. Come certamente noto , l'art. 1130 del codice civile, che disciplina i poteri conferiti all'amministratore, è stato interamente modificato e sostituito dalla versione prevista dall’art. 10, L. 11 dicembre 2012, n. 220, in vigore dal 17 giugno 2013. Tale modifica legislativa, rientrante nella più ampia modifica delle norme che regolamentano la disciplina del Condominio degli edifici, è stata il frutto di una sistematica applicazione degli arresti giurisprudenziali e dei contributi dottrinari che hanno riguardato la materia condominiale negli ultimi 40 anni. Come certamente a tutti i nostri lettori noto la nuova formulazione dell'articolo 1130 del codice civile, risulta essere quindi la seguente: " L'amministratore, oltre a quanto previsto dall'articolo 1129 e dalle vigenti disposizioni di legge, deve: eseguire le deliberazioni dell'assemblea, convocarla annualmente per l'approvazione del rendiconto condominiale di cui all'articolo 1130-bis e curare l'osservanza del regolamento di condominio; disciplinare l'uso delle cose comuni e la fruizione dei servizi nell'interesse comune, in modo che ne sia assicurato il miglior godimento a ciascuno dei condomini; riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell'edificio e per l'esercizio dei servizi comuni; compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell'edificio, eseguire gli adempimenti fiscali; curare la tenuta del registro di anagrafe condominiale contenente le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali e di diritti personali di godimento, comprensive del codice fiscale e della residenza o domicilio, i dati catastali di ciascuna unità immobiliare, nonché ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza. Ogni variazione dei dati deve essere comunicata all'amministratore in forma scritta entro sessanta giorni. L'amministratore, in caso di inerzia, mancanza i incompletezza delle comunicazioni, richiede con lettera raccomandata le informazioni necessarie alla tenuta del registro di anagrafe. Decorsi trenta giorni, in caso di omessa o incompleta risposta, l'amministratore acquisisce le informazioni necessarie, addebitandone il costo ai responsabili; curare la tenuta del registro dei verbali delle assemblee, del registro di nomina e revoca dell'amministratore e del registro di contabilità. Nel registro dei verbali delle assemblee sono altresì annotate: le eventuali mancate costituzioni dell'assemblea, le deliberazioni nonché le brevi dichiarazioni rese dai condomini che ne hanno fatto richiesta; allo stesso registro è allegato il regolamento di condominio, ove adottato. Nel registro di nomina e revoca dell'amministratore sono annotate, in ordine cronologico, le date della nomina e della revoca di ciascun amministratore di condominio, nonché gli estremi del decreto in caso di provvedimento giudiziale. Nel registro di contabilità sono annotati in ordine cronologico, entro trenta giorni da quello dell'effettuazione, i singoli movimenti in entrata ed in uscita. Tale registro può tenersi anche con modalità informatizzate; conservare tutta la documentazione inerente alla propria gestione riferibile sia al rapporto con i condomini sia allo stato tecnico-amministrativo dell'edificio e del condominio; fornire al condomino che ne faccia richiesta attestazione relativa allo stato dei pagamenti degli oneri condominiali e delle eventuali liti in corso; redigere il rendiconto condominiale annuale della gestione e convocare l'assemblea per la relativa approvazione entro centottanta giorn i ". E' evidente che, rispetto alla precedente versione, molto più sintetica e lacunosa, la nuova versione risulti molto più articolata ed esplicativa. Tra le principali novità si individuano i seguenti obblighi a carico dell'amministratore di condominio: l'obbligo di procedere agli adempimenti fiscali; provvedere alla tenuta di nuovi registri obbligatori ed alla conservazione di tutta la documentazione inerente la gestione del condominio ed i rapporti con i singoli condomini, nonché lo stato tecnico-amministrativo dell'edificio e del condominio; l'obbligo di consegna al condomino che ne faccia richiesta dell'attestazione dei pagamenti degli oneri condominiali e delle eventuali liti in corso; la redazione di un rendiconto condominiale annuale di gestione e la convocazione dell'assemblea per l'approvazione entro 180 giorni. Senza addentrarci in questa sede nell'istituto dell'amministrazione condominiale quale mandato con rappresentanza rientrante nell'alveo del più generale mandato di cui all'art. 1708 del codice civile- che diverrà oggetto di un altro futuro articolo- è necessario, dal punto di vista ermeneutico, comprendere se l'elencazione dei poteri e degli obblighi indicati nella norma in discorso sia tassativa o meramente esemplificativa ed in secondo luogo se i suddetti poteri possano essere ampliati o ridotti in base ad una previsione regolamentare ad hoc. Questo perchè l'art. 1133 del codice civile prevede espressamente che le decisioni dell'amministratore assunte nell'esercizio dei propri poteri siano vincolanti nei confronti dei condomini. Secondo una tesi restrittiva, l'elencazione dell'art. 1130 è una elencazione tassativa e quindi i poteri e gli obblighi dell'amministratore siano solo quelli in quella norma previsti. Secondo una opposta tesi, l'elencazione contenuta nella suddetta norma è meramente esemplificativa e non esaustiva. La tesi preferibile è quella secondo cui l'elencazione contenuta nell'art. 1130 vada interpretata nella sua massima estensione (c.d. Interpretazione estensiva), anche alla luce delle normative di settore. Secondo questa tesi, pertanto, quando si precisa che l'amministratore ha " l'obbligo di consegna al condomino che ne faccia richiesta dell'attestazione dei pagamenti degli oneri condominiali e delle eventuali liti in corso ", tale obbligo si estende anche al conduttore di un immobile per le spese di sua competenza e si estende anche alla consegna di tutta la documentazione di natura contabile, fiscale, antiriciclaggio nonchè di tutta la documentazione di natura condominiale che possa interessare al condomino, in base a normative di settore. Il secondo tema, ovvero se il regolamento possa prevedere ulteriori poteri o obblighi, ovvero possa ridurre l'elenco testè citato, necessita di alcuni chiarimenti. Rispetto ai regolamenti redatti anteriormente al 1942 (anno di emanazione dell'attuale codice) è evidente che gli stessi siano stati modificati ex lege nelle parti non coerenti con l'attuale normativa. Per i regolamenti successivi al 1942- ed ancor più, successivi al 2013, per i condomini di nuova costruzione- il discorso è più complesso. Sono certamente ammissibili regolamenti che stabiliscano poteri ed obblighi per l'amministratore in numero minore rispetto a quelli indicati nell'art. 1130 del c.c ovvero che subordino un determinato esercizio di un potere all'obbligo di preventiva delibera autorizzativa da parte dell'assemblea. Questione più sottile e complessa per i regolamenti che prevedano poteri magiori rispetto in capo all'amministratore, in quanto si deve distinguere tra potere che inerisca alle parti comuni (es. Potere di alienare le parti comuni senza obbligo di preventiva delibera assembleare, comunque sempre consigliabile a tutela dell'amministratore medesimo) certamente ammissibile, da potere che incida su diritti individuali- anche se preordinato all'interesse comune- (es. potere dell'amministratore di bloccare l'accesso alla proprietà privata di un condomino nell'interesse del condominio). Su quest'ultima possibilità, chi scrive ritiene che la compressione di un diritto individuale possa avvenire solo ed esclusivamente in base ad un potere esercitato su mandato del titolare di quel diritto individuale. In caso contrario il potere dell'amministratore verrà esercitato in modo arbitrario e come tale passibile di risarcimento del danno.
Il 30 gennaio 2020 sono state depositate le motivazioni della sentenza con le quali la Corte d’Assise di Milano ha assolto con formula piena Marco Cappato. Il noto esponente radicale era imputato per i reati di rafforzamento e aiuto al suicidio prestato a Fabiano Antoniani (per noi, da adesso in avanti, solo Dj Fabo). Il reato in questione è previsto e sanzionato dall'art. 580 del codice penale il quale punisce con una pena da cinque a dodici anni di reclusione, se il suicidio si verifica, " Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione ...". Sostanzialmente, Marco Cappato rischiava una pena molto severa, sia in relazione all'istigazione al suicidio (l'istigazione consiste nell'induziuone di qualcuno a suicidarsi facendone sorgere o rafforzandone il convincimento), sia in relazione all'agevolazione dell'esecuzione (averlo accompagnato nella clinica svizzera dove Fabo ha posto fine alla sua esistenza). Vedremo più avanti come la Corte di assise affronti entrambe i temi. La vicenda è tristemente nota ma è il caso di ripercorrerla, non certo per morbosa riproposizione di una vicenda umanamente e emotivamente molto toccante perchè potenzialmente riguardante tutti noi, ma per comprendere le motivazioni con le quali la Corte Costituzionale prima, con la sentenza n. 242 del 2019 che possiamo definire senza tema di smentita, storica, e la Corte di assise poi, hanno affrontato e risolto la tematica del c.d. suicidio assistito. I l 13 giugno 2014 Dj Fabo rimane vittima di un grave incidente stradale restando tetraplegico e cieco in modo permanente (cecità bilaterale corticale, per amor di precisione!) Da allora, DJ FABO non è più autonomo nella respirazione, nè nell’alimentazione e nell’evacuazione. Potremmo già fermarci qui, ma purtroppo la vita, quando si accanisce, lo fa in maniera crudele e quindi Fabo è anche spesso soggetto a spasmi e contrazioni ma – e forse questa era il suo vero dramma- conserva, intatte le facoltà intellettive- pertanto capisce tutto ed è perfettamente lucido-. A nulla servono ricoveri continui, trapianti di cellule e tutte le possibli terapie che la scienza medica era ed è tuttora in grado di mettere a disposizione di Fabo. Ma Fabo non ci sta. Quella per lui non è vita. Quella per lui è morte travestita da vita. E comunque, quella non è la vita che può accettare e tollerare di voler vivere. Si potrebbe affermare, in termini giuridicamente più corretti, che sta esercitando il suo pieno, incoercibile ed incomprimibile diritto di autodeterminarsi e ed ha deciso di autodeterminarsi cosi. È allora che si viene a sapere che in Svizzera esiste un luogo in cui il suicidio assistito viene pratichato, perchè gli svizzeri non sono avanti solo in fatto di orologeria e di banche, ma anche di diritti civili. È solo in quel momento che contatta Marco Cappato, noto esponente radicale ed impegnato nella tutela dei diritti dei malati terminali con l'associazione LUCA COSCIONI. Per farla breve, a fine febbraio 2017 Marco Cappato accompagna Fabo in Svizzera dove il 27 febbraio 2017, Fabo pone fine alla sua vita evadendo da quella prigione in cui si sentiva rinchiuso senza aver fatto nulla per meritarlo. Lo fa- circostanza di non poco conto- azionando da solo, con la bocca, uno stantuffo, iniettandosi nelle vene il farmaco letale. Di ritorno dal viaggio, Marco Cappato si va ad autodenunciare ai carabinieri. In un mondo in cui ministri e parlamentari si trincerano dietro le autorizzazioni a procedere ed immunità parlamentare, lui si va ad autodenunciare e lo fa rischiando in prima persona, per sostenere un principio valido per tutti noi, ovvero che della nostra vita facciamo quel che ci pare. Il tema che cercheremo di sviluppare in questo articolo è se Fabo aveva il diritto di decidere della sua vita o no, se aveva il diritto di finirla anzitempo; e se colui che lo stava aiutando nel suo intento, poteva farlo o no. Rispetto al primo tema, la questione- diciamolo subito- ha poco a che fare con il diritto e molto con l'ideologia. Esistono numerosi scritti di diritto, bioetica, teologia, financo medicina e certamente filosofia, che affrontano il tema della disponibilità (ovvero del diritto di disporre come ci pare e piace) del bene "vita". Per quanto lo sforzo di definirne i confini sia titanico, la risposta è sempre la stessa e fa il paio con l'altro tema gigantesco, ovvero quello dell'esistenza di Dio. Dipende sempre e solo dal punto di vista da cui si guardano le cose. Per un laico, liberale o progressista, la vita è qui e ora, e quindi il bene vita è un bene dispobilile di cui poter fare quel che si vuole. Per un cattolico, o più banalmente per chi pensa che la vita non finisca qui, il bene vita è un bene di cui noi siamo solo custodi, che deriva ed appartiene a Dio e di cui non possiamo disporre. Tra questi due estremi, si collocano una serie di ipotesi intermedie ed ipocrisie varie (come quella di mantenere artificialmente in vita un soggetto che secondo lo scorrere naturale degli eventi- quindi in base al volere di Dio- morirebbe in pochi minuti). Pertanto, il tema della disponibilità del bene "vita" non troverà mai una risposta certa, se non quella- parziale- che postula l'idea che in uno stato laico, anticlericale e non confessionale, l'approccio ideologico di ispirazione religiosa non può trovare ingresso come principio generale, ma solo all'interno delle coscienze dei singoli. Chiarito – o rimandato- questo primo tema, (che comunque la Corte implicitamente affronta stabilendo che il bene vita, a determinate condizioni, è un bene disponibile) si pone il secondo problema, ovvero quello di chi agevola le scelte individuali o più banalmente le rende possibili. La Corte Costituzionale, con una sentenza storica, che ricorderemo a lungo, ancor più rivoluzionaria perchè resa in Italia, alle porte del Vaticano, scontentando le gerarchie ecclesiastiche ed una pletora di bigotti che sanno giudicare sempre il comportamento altrui, con una lunga ed articolata motivazione che per motivi di spazio evitiamo di riportare ma che è facilmente rinvenibile su internet, ha dichiarato non punibile " chiunque agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente ". Pertanto, la Corte Costituzionale, ha escluso la punibilità (o, rectius, la configurabilità stessa del reato) di chi agevola un soggetto, nel suo intento di porre fine alla propria esistenza, nel caso vi sia la compresenza di quatto circostanze riferibili al malato: a) presenza di una patologia irreversibile; b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che il malato reputa intollerabili; c) mantenimento in vita del malato tramite sussidi medici; d) capacità del malato di decidere autonomamente, liberamente e consapevolmente il da farsi. La compresenza di queste circostanze dovrà essere stato attestata da un organo di natura medica, segnatamente una truttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. La Consulta, così decidendo, ha di fatto legalizzato il suicidio assistito di un malato terminale, decisosi liberamente a porre fine alle proprie sofferenze terrene. Ecco allora che la Corte d’Assise di Milano, in ottemperanza ai suesposti principi, compie due valutazioni: ovverso se Cappato avesse istigato Fabo a suicidarsi, rafforzandone il convincimento, ovvero se lo avesse aiutato a farlo. Sul primo aspetto, su cui la Corte Costituzionale non si era pronunciata, la Corte di assise esclude tale ipotesi basandosi sul fatto che Cappato avesse incontrato Fabo solo alla fine del suo percorso, quando Fabo aveva già deciso il da farsi. Quindi Cappato non aveva in alcun modo inciso sulla capacità di DJ Fabo di decidere per sè. Per arrivare a dimostrare questa circostanza, la Corte evidenzia come Fabo avesse maturato talmente tanto tale decisione, in modo autonomo, da essersi spinto in passato a rifiutare il cibo per molti giorni pur di dimostrare la propria determinazione, confermata anche dala persona che affiancava la madre e la fidanzata nel provvedere alle sue cure. Cappato, pertanto, aveva solo preso atto di questa ferma volontà, senza contribuire in alcun modo alla decisione, già assunta, da Fabo. Ma rimane il secondo tema. Quello dell'aiuto al suicidio. E sul punto, la Corte applica in modo rigido le indicazioni della Consulta. Ed accerta come Fabo fosse indubitabilmente affetto da una patologia- in quel momento ed allo stato dell'arte della scienza medica- incurabile (purtroppo lo è tuttora!). Che era afflitto da indicibili sofferenze, come riferito dall'Anestesista-rianimatrice che ha evidenziato che tali sofferenze non potevano essere lenite completamente neppure con l'uso di forti antidolorifici. Che era mantenuto in vita da macchine, non potendo nè respirare, nè alimentarsi nè evaquare autonomamente (cento anni fa il problema non si sarebbe neppure posto. La natura avrebbe fatto il suo corso. Con buona pace di tutti. Ma oggi il problema esiste e va affrontato). E che, come evidenziato in precedenza, si era determinato autonomamente a compiere quel gesto. E quindi Marco Cappato, o qualunque medico o familiare si trovasse nelle medesime condizioni, non poteva- e non potrà - essere imputato di aiuto al suicidio. Il resto è storia giudiziaria. È la scelta della Corte di assolvere Cappato perchè il fatto non sussiste in luogo dell'assoluzione perchè il fatto non costituisce reato. Il tema probabilmente appassionerebbe più i processualpenalisti che i lettori (anche se Franco Cordero, il maestro della procedura penale di chi oggi vi scrive avrebbe approvato la decisione dei giudici). È la storia di pianti. Di ricordi. Del coraggio di scegliere. Del coraggio di accettare la scelta altrui anche se non la condividiamo. Del coraggio di crescere. Del coraggio di andare avanti, senza dimenticarci di chi ci ha aiutato a farlo, anche a costo della vita. Giustizia è fatta. Massimo Baldi Pergami Belluzzi
Membro della prima commissione esaminatrice per l'ammissione all'esercizio della professione forense
Specializzazione in professioni legali in materia forense
Studio Legale Baldi Pergami Belluzzi
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